Aldo Lado è tra i maggiori registi italiani viventi. La critica spesso si riferisce a lui come “Maestro del giallo all’italiana”, ma la carriera dell’artista di Fiume, veneziano d’azione, testimonia ben altro: Lado è uno dei pochi autori italiani la cui opera e la cui cultura hanno un respiro europeo. Del resto, prima di approdare alla regia nel 1971 con quello che è divenuto un cult movie, La corta notte delle bambole di vetro, si era formato con maestri francesi quali Anatole Litvak e Marcel Carné, aveva collaborato con uno dei nostri registi più internazionali, Bernardo Bertolucci, e lavorato in molti film di genere: esperienze che gli hanno consentito di affinare sia le conoscenze più specificamente tecniche della regia che la sapiente direzione degli attori. Negli ultimi anni Lado si è dimostrato uno storyteller nato, non solo con le immagini ma anche con la narrativa, libri che hanno riscosso successo di critica e di pubblico. In questa intervista abbiamo ripercorso la sua attività artistica.
Lei ha cominciato nel cinema negli anni Sessanta in Francia, come aiuto regista di Anatole Litvak e Marcel Carné. Quanto ha inciso l’esperienza con quei maestri e con la cinematografia d’oltralpe nella sua attività di regista?
Avevo iniziato a Venezia con dei cartoni animati ma eravamo scivolati sulla pubblicità per sopravvivere, così avevo deciso di mollare tutto e partire per Parigi sperando di riuscire a lavorare nel cinema. Il primo film in cui mi hanno assunto è stato quello di Litvak e per una serie di coincidenze per me fortunate dopo poche settimane sono diventato il primo aiuto in quella che era la più importante produzione in quel periodo. Attori Sofia Loren e Antony Perkins e il gotha dei tecnici francesi. Terminate le riprese Litvak ha voluto che restassi al suo fianco durante il montaggio e la sonorizzazione sino alla copia campione, per cui con quel mio primo lavoro ho potuto imparare tutto quello che c’era da sapere sulla tecnica. Non potevo avere una scuola di cinema migliore! Grazie a Carné ho imparato invece a dirigere gli attori. Anche qui grazie al caso. Franco Citti, uno dei protagonisti del film, aveva avuto un violento contrasto col regista per futili motivi e Carné non voleva più rivolgergli la parola, per cui mi dava delle indicazioni e io dovevo dirigerlo. Si vede proprio che ero destinato a fare il mestiere che più desideravo nella vita, anche se non avevo mai ambito a diventare regista e mi bastava lavorare nel cinema!
Una volta tornato in Italia ha lavorato in alcune produzioni western e di film bellici. In che misura ha segnato la sua formazione l’incontro con il cosiddetto genere cinematografico?
È stato un continuo imparare, anche da quello che ai miei occhi appariva brutto o mal fatto. In Francia avevo lavorato in grosse (e ricche) produzioni, e mi sono trovato in piccoli film con mezzi striminziti, ma ho imparato soprattutto l’arte di arrangiarsi, il grande talento manuale e l’inventiva delle nostre maestranze. Insomma anche io sono diventato “un buon artigiano” e tale mi sono sempre considerato.
È vero che fu lei, durante i sopralluoghi a Parigi insieme a Bertolucci, a scovare Maria Schneider, protagonista dell’Ultimo tango a Parigi, e a trovare l’appartamento in cui furono girati gli interni?
Si. Avevo già realizzato il mio primo film, ma alla chiamata di Bertolucci che mi voleva come collaboratore su Tango avevo accettato, sia per l’amicizia che ci legava dopo Il Conformista in cui ero stato il suo aiuto, che per l’importanza del progetto. Stavo facendo il casting a Parigi e cercavo un attore da proporre a Bernardo per il ruolo che poi ha affidato a Jean-Pierre Léaud, avevo incontrato Xavier Gélin (figlio del grande Daniel Gélin e ora diventato produttore) e mi aveva raccontato di aver incontrato casualmente una sorellastra che non sapeva di avere. Intrigante e sexy. Lo pregai di farmela conoscere ed era Maria Schneider. Davvero interessante per quella protagonista che cercavamo e non avevamo ancora trovato! E Bernardo la scelse.
È corretto considerare molti dei suoi film, a partire da La corta notte delle bambole di vetro (1971), come delle metafore socio-politiche, con accentuati elementi di critica sociale e di costume? In questo film si dice che i potenti mantengono il potere succhiando il sangue dei giovani come dei vampiri, e rimane attualissimo il tema del giornalista eliminato per aver scoperto una verità indicibile, o quello della pedofilia dei preti nel suo secondo film, Chi l’ha vista morire (1972).
Ho sempre sperato che la metafora emergesse agli occhi degli spettatori perché molti dei miei lavori erano delle critiche socio-politiche alle storture della società. Purtroppo, a distanza di cinquanta anni da quel film, ancora oggi molti giornalisti vengono uccisi o imprigionati nel mondo perché si avvicinano troppo a verità scomode per il potere, e il sangue dei giovani scorre ovunque per difendere interessi economici di potentati. Petrolio, gasdotti od oppio che sia! E c’è voluto il coraggio del Papa attuale per scoperchiare lo scandalo della pedofilia dei preti, che purtroppo era diffusissima già allora, e io ragazzino sono sfuggito solo miracolosamente alle tangibili avance di un confessore!
Molte delle sue opere sono caratterizzate da temi forti, come la violenza, l’emarginazione, la delinquenza giovanile, la sessualità. Nel caso de La cugina (1974) è stato denunciato per atti osceni, mentre la pellicola de L’ultimo treno della notte (1975) volevano addirittura bruciarla. Fino a che punto la censura ha ostacolato la sua attività artistica?
Le commissioni censorie erano per lo più composte da modesti funzionari della pubblica amministrazione di cui alcuni in quiescenza ed era evidente che aborrivano i miei film, per cui strappavamo a fatica il divieto ai 18 anni. La Cugina è stato denunciato da un frate dopo che era uscito. Ma che ci faceva quel frate al cinema quando dalle locandine era evidente che si trattava di un film sexy? Comunque i produttori facevano le prime uscite in zone dove c’erano pretori lungimiranti e fui assolto. Per L’Ultimo Treno con qualche taglio riuscii a farlo uscire. Alcuni anni fa la mitica Cinémathèque di Parigi fece una serata in mio onore e il direttore mi chiese davanti a una sala gremitissima come ero riuscito a fare negli anni Settanta un film così politico e antisistema. Risposi che da un lato lo avevo girato in soli 25 giorni e dall’altro che il produttore era talmente indaffarato a rincorrere le cambiali che aveva firmato, che si era accorto del film che avevo fatto solo la sera in cui la censura lo aveva mandato al rogo! Comunque, non mi sono fatto condizionare e mai mi sono autocensurato girando un film.
Alcuni suoi film furono avversati dai recensori dell’epoca. Che rapporto aveva con la critica?
Direi che la critica mi ha proprio massacrato con eccezione di qualche giornale di sinistra, ma era evidente che toccavo gangli scoperti di una stampa che era prevalentemente conservatrice.
Molti registi considerano superfluo lo storyboard. Lei se ne serviva?
Soltanto quando ho girato L’umanoide ho ritenuto indispensabile uno storyboard in quanto avevo una commistione di riprese e di effetti speciali ed era l’unico modo per far capire ai collaboratori quello che volevo o quello che serviva al montaggio del film. In genere era sul set, e dopo aver provato con gli attori decidevo con quali inquadrature o movimenti di macchina raccontare la scena.
Lei ha diretto numerosi e importanti attori: con quali ha avuto una maggiore consonanza artistica ed umana?
Senza dubbio con la grande Stefania Sandrelli, che per amicizia mi ha seguito anche nell’avventura televisiva dei 13 film della serie “La Stella del Parco” girati in Val d’Aosta, e con Mario Adorf, che avevo incontrato come aiuto di Samperi girando Un’anguilla da 300 milioni e che ho avuto sia nella Disubbidienza che nella Corta Notte. Ma ho avuto anche un ottimo feeling con Barbara Bach e Corinne Clery. Inoltre, in molti film ho ritagliato un ruolo per José Quaglio, attore e regista teatrale conosciuto nel Conformista, che, oltre a essere sempre perfetto nel ruolo che gli affidavo, consideravo il mio portafortuna.
Ennio Morricone ha musicato molti dei suoi film. Che ricordi ha dell’uomo e dell’artista? Come si svolgeva la vostra collaborazione?
Ne ha musicati ben nove! Ennio era tutto per la musica e la famiglia, e credo che l’unica altra passione che avesse fosse il gioco degli scacchi. Quando ero certo che il film si faceva (molti progetti cadevano!) gli portavo la sceneggiatura e poi lui mi chiamava per farmi ascoltare le arie che la mia storia gli aveva ispirato. A volte ha inciso con amici una maquette per consentirmi di avere la sua musica sul set mentre giravo. Seguiva poi il film sino al giorno in cui lo missavo e a volte mi suggeriva di togliere un pezzo di musica che avevamo montato, dicendo che su quella scena il silenzio era più pertinente. Per lui era il film che contava! In una sua intervista di quegli anni, disse che con i miei film che uscivano dagli schemi della produzione corrente gli consentivo di sperimentare musicalmente.
Sull’onda del successo di Guerre stellari lei girò un film di fantascienza, L’umanoide (1979), personalizzando lo stile dinamico delle produzioni hollywoodiane. Come superò i problemi di budget limitati e dei limiti tecnologici della nostra cinematografia dell’epoca?
Non fu facile. Non esisteva il digitale e tutto doveva venir fatto artigianalmente, per cui da un lato chiesi l’aiuto di Emilio Ruiz che interveniva per modificare il luogo davanti agli obiettivi, e dall’altro quello di Antonio Margheriti che nei suoi film aveva già fatto volare i modellini.
Lei ha lavorato spesso su script tratti da opere letterarie. Cosa ricorda del film La disubbidienza (1981), tratto dal romanzo di Moravia?
Amo molto questo film, sia perché Moravia aveva precorso i tempi scrivendo questo breve romanzo nel 1946 precorrendo il ’68 e la ribellione giovanile, sia perché ho spostato la storia da Roma a Venezia che è la mia città, anticipandola agli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra e quindi inserendo molto del mio vissuto. Inoltre, ho scovato un grande talento della fotografia, Dante Spinotti, che dopo questo film è salito sempre più in alto sino al palco degli Oscar. I francesi considerano La Disubbidienza uno degli ultimi grandi film italiani di quel periodo.
Negli anni ’90 lei torna con tre film al giallo all’italiana: Venerdì nero (1991), Alibi perfetto (1992) e La chance (1994). Dai suoi esordi erano passati vent’anni, e il cinema, l’Italia, il mondo erano completamente mutati. Dal punto di vista registico, di aspettative sue e del pubblico, quali differenze potrebbe tracciare tra i due periodi?
Avevo passato dieci anni a realizzare serie televisive e mi ero stufato, per cui quando un produttore mi chiese di dirigere quei film lo feci, ma non erano miei film. Inoltre, quello che era cambiato era il fatto che con i grandi distributori e produttori per lo più spariti oramai le televisioni dettavano legge e dovevi adeguarti alle esigenze di un pubblico televisivo. Ma si deve pur campare!
La sua ultima regia è Il notturno di Chopin (2012), una storia claustrofobica e angosciante di una bambina rapita da un maniaco. Le manca l’emozione, l’adrenalina, il piacere del set?
Moltissimo e sarei pronto a girare anche domattina malgrado i miei 87 anni, ma soltanto un film mio, libero di raccontare come voglio. Mi sfogo attualmente raccontando storie in romanzi e racconti che grazie al cielo vengono pubblicati e premiati.
Tra i tanti progetti non realizzati, ce n’è qualcuno che le suscita particolare rimpianto?
L’Obelisco Nero. Era un romanzo di Remarque ambientato durante la repubblica di Weimar in un periodo in cui l’inflazione galoppava al punto che l’operaio veniva pagato due volte al giorno per consentirgli di star dietro al costo del pane che raddoppiava di ora in ora. L’opzione sui diritti me la aveva data la grande Paulette Goddard, vedova dello scrittore, e ho lavorato quasi un anno a questo progetto, alla fine soltanto una rete televisiva tedesca era disposta a finanziarlo ma lo voleva annacquato e privo della sua implicita e tragica violenza, perché da quella inflazione nasceva il primo albore del nazismo. Ho preferito rinunciare!
Da qualche anno lei ha intrapreso l’attività di scrittore. La soddisfazione creativa di terminare un romanzo è in qualche modo paragonabile a quella di ultimare un film?
Sono due cose diverse a mio avviso. Un film ha tempi determinati e sempre stretti perché ci sono in gioco dei capitali. Quando arrivi alla copia campione stampata hai il fiato grosso e ti sembra sempre di non aver fatto tutto per fare un buon film, ma sospiri di sollievo come una donna che vede il bimbo dopo un parto difficile. Un libro invece si prende il tempo necessario e io ne scrivo diversi e di getto. Poi li lascio maturare riprendendoli e modificandoli sino a quando penso di essere soddisfatto. Ma anche dopo averli stampati, puoi rileggerli e correggere ancora cercando di migliorarli per le ristampe successive. Un film fatto, ormai è intoccabile! Per non aver rimpianti i miei film non li ho più voluti rivedere e anche alle manifestazioni in cui vengono proiettati li presento al pubblico e poi esco dalla sala, per tornare solo alla fine per l’eventuale dibattito.