Con Bentornato papà, Domenico Fortunato dirige un film corale per parlare di vita affrontando la morte | Giornale dello Spettacolo
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Con Bentornato papà, Domenico Fortunato dirige un film corale per parlare di vita affrontando la morte

Il regista Domenico Fortunato torna in sala con il suo nuovo film "Bentornato papà". Prodotto da Cesare Fragnelli per Altre Storie con Rai Cinema

Con Bentornato papà, Domenico Fortunato dirige un film corale per parlare di vita affrontando la morte
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12 Ottobre 2021 - 19.53


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di Alessia de Antoniis

 

Arriva in sala Bentornato papà, il nuovo film di Domenico Fortunato, tra la anteprime mondiali presentate al Bif&st, il Bari International Film Festival.

Prodotto da Cesare Fragnelli per Altre Storie con Rai Cinema, è un’intensa e toccante storia familiare con Domenico Fortunato, anche nel ruolo d protagonista, Donatella Finocchiaro, Riccardo Mandolini (protagonista della serie Netflix Baby), l’esordiente Giuliana Simeone, affiancati da Dino Abbrescia, Giorgio Colangeli, Giulio Beranek, Silvia Mazzieri, Sara Putignano e Franco Ferrante.

Il film racconta la storia di una famiglia con legami profondi, nonostante alcune incomprensioni. Franco, un padre che ha dedicato la vita ai suoi cari e al lavoro. Il figlio Andrea, studente con le proprie ambizioni e inquietudini. La figlia Alessandra, sensibile e con il sogno di diventare maestra. La moglie Anna apprensiva e amorevole. Il fratello, Silvano, a cui è molto legato. Un tragico evento colpisce Franco improvvisamente, sconvolgendo la sua vita e quella dei suoi cari. Per tutti inizia un percorso terapeutico dell’anima alla ricerca di un nuovo equilibrio. Ma tutto cambierà ancora una volta.

Bentornato papà è come la vita: non è mai come te l’aspetti, è piena di sorprese e ha tanti possibili finali. È un film che parla di ovvietà, forse, ma la vita è ovvia: si nasce, si muore, e in mezzo c’è una storia, c’è un film. Soprattutto ci sono sentimenti, emozioni. Questo è Bentornato papà: un film che parla di emozioni, di sentimenti, di malattia, di morte. Ma lo fa con quel linguaggio antico, privo di sensazionalismi, con il quale abbiamo da sempre raccontato la vita: con rispetto e pudore. Con amore. Grazie a un cast affiatato che dà vita ad un lavoro corale, sotto la direzione di Domenico Fortunato.

 

Malattia, morte e rapporti familiari dolorosi, fanno audience. Voi li avete trattati senza sensazionalismi, con gentilezza, rispetto. Senza voler fare la morale a nessuno…
Il modo di raccontare la sofferenza in Bentornato papà, viene da un dolore condiviso. Si parla di un’esperienza che abbiamo vissuto, sia io che il produttore. Entrambi a vent’anni abbiamo perso il papà. Per malattie diverse. Ma la malattia, il tempo trascorso in ospedale, la perdita, sono esperienze che hanno trasformato le nostre vite. Abbiamo voluto rendere un omaggio ai nostri genitori, ai nostri padri, senza sensazionalismi e senza retorica. Proprio perché abbiamo vissuto il lutto, abbiamo scelto di restare semplici. Senza fronzoli.

 

Quanto c’è di te?
In ogni storia c’è un pezzo di qualcuno degli attori o degli autori. Dopo la proiezione al Bari International Film Festival, mi sono arrivati messaggi di persone che si sono identificati in vari personaggi. Mi ha colpito una ragazza che mi ha detto che si era immedesimata in uno di questi, perché si era ritrovata orfana di madre ad assistere il padre malato. Abbiamo rappresentato la quotidianità di tante famiglie italiane, con i genitori che lavorano, che vivono in modo semplice, magari con un figlio che va a studiare fuori. Soprattutto chi ha avuto la fortuna di vivere l’infanzia in una famiglia come quella che descriviamo, si identifica in questi personaggi normali. Purtroppo a chiunque può capitare di perdere i propri cari. A qualsiasi età. Per questo abbiamo cercato di farlo senza sensazionalismi.

 

La pandemia è stata un’occasione per far rientrare la morte nella nostra quotidianità, per tornare a parlare di qualcosa che avevamo allontanato?
In realtà questo film era stato progettato tre anni fa, dopo la mia prima regia. Non si pensava a una pandemia. Eravamo pronti a girare nel 2019. Poi Rai cinema fu costretta a sospendere il progetto per le regole anti covid. Si aprì una finestra a luglio. Fatto il sopralluogo in Puglia, abbiamo girato tra la fine di agosto e la prima settimana di ottobre. Ma non abbiamo mai pensato di farci influenzare dalla pandemia.

Io dico sempre che la nostra storia è ambientata nel paleozoico, quando si poteva entrare tutti in ospedale durante l’orario delle visite, in un ospedale di provincia. Dove i rapporti sono umani, ti fanno stare seduto per qualche ora con mamma e figli. Dove ci si tocca, ci si abbraccia. Ad esempio, quando alcuni mesi fa mia mamma è stata operata di cuore, io e mia sorella l’abbiamo accompagnata e poi non l’abbiamo vista più. L’abbiamo salutata da lontano mentre passava sulla barella per andare in camera operatoria, senza poterla toccare. L’abbiamo rivista dopo l’intervento, mentre tornava in reparto. Poi di nuovo quando l’hanno dimessa. Non si poteva entrare, non si poteva portare nulla. Per un’ospedale queste sono operazioni di routine, per noi era nostra madre di 83 anni operata al cuore.

Non avete sfruttato la pandemia…
Ormai si parla solo di covid. Ma prima esistevano anche tutte le altre malattie: infarti, ictus, tumori. Sono malattie passate in secondo ordine, ma che fanno parte della quotidianità degli ospedali e della vita delle famiglie. Non sono scomparse con il covid.

 

Cronemberg in apertura del Matera Film Festival ha detto “il cinema è morto. Molto meglio vedere un film a casa comodamente seduto in poltrona” (Ansa.it – nda). Intendeva le sale. Ma la disaffezione del pubblico alla sala è davvero un problema legato solo al fatto che a casa si sta più comodi?
Cronenberg è un grande maestro e nessuno può permettersi, men che mai io, di contraddirlo. Ma non sono d’accordo. Innanzitutto, perché la sala è un luogo magico. Un luogo bellissimo e misterioso dove si possono vivere i sogni; non verrà mai sostituita da nessuna tecnologia. Io sono per il ritorno in sala, che è un luogo assolutamente sicuro.

 

Tutti questi ragazzi che vedono film sulle piattaforme, con schermi tecnologici e sistemi audio al massimo della definizione, un giorno scopriranno la magia della sala. Come i bambini che vivono in città, vanno per la prima volta in campagna e vedono i polli e le galline, che magari hanno visto solo nei cartoni animati. La pandemia ci ha impigriti. Sono aumentati gli abbonamenti alle piattaforme. Anche io li ho. Ma la sala non può essere sostituita da nulla.

 

Però lo streaming ha avuto un successo enorme…
La pandemia ha dimostrato soprattutto una cosa. Tutti quelli che sono rimasti in casa, hanno consumato sulle piattaforme, compresa la nostra Rai play, tutto quello che c’era da vedere. È stata la dimostrazione che la gente ha bisogno di storie. Storie come Narcos, La casa di carta e tante altre. Quindi, nel futuro della comunicazione c’è bisogno di tante storie. Ma, come stanno dimostrando molti Paesi, Stati Uniti in testa, il ritorno in sala c’è e ci sarà. Spero che accada presto anche in Italia. Concorrono molti fattori.

 

Oltre alla paura per la pandemia e il green pass, una responsabilità è della comunicazione: dalla stampa ai programmi televisivi, l’informazione è stata fatta in modo disordinato, creando solo confusione. Poi bisogna aggiungere la crisi economica: tanta gente non ha guadagnato. A parte dipendenti pubblici o di grandi società, che hanno lavorato in smart working, tante persone non hanno lavorato. Quindi non spendono facilmente i soldi per andare al cinema. Magari vanno a vedere 007, i grandi film della Marvel, ma fanno fatica ad andare al cinema o a teatro e a pagare il biglietto a prezzo pieno.

 

Tu e Giorgio Colangeli, tuo fratello nel film, siete due attori che occupano lo schermo. Eppure non avete sovrastato gli altri…
Volevo che fosse un film corale e lo è. Ogni personaggio è dipinto per essere incastonato in questa storia. Sono contento che emerga, perché si parla di famiglia e non di singoli. Per ottenere questo risultato abbiamo lavorato come a teatro. La settimana dopo Ferragosto abbiamo fatto sei giorni di prove a tavolino come si fa in teatro, ripetendo tutto il film tre volte, leggendo insieme e studiando le parti. Quando siamo arrivati in Puglia, abbiamo continuato in albergo per una settimana, prima delle riprese, a provare. Sempre con la mia supervisione, ma c’è il lavoro condiviso di tutti quanti.

 

Gabriele Salvatores, per il suo film Comedians, ha fatto provare il cast per due settimane (Wondernet Magazine – nda) e tutti hanno notato come non fosse più un cast ma una compagnia. Il cinema sconta anche il lavoro, quasi in catena di montaggio, che oggi impongono le produzioni?
C’è la fretta di far lavorare tante persone in poco tempo per ottimizzare i costi. Questo film lo devo ad un grande produttore, più giovane di me, che lavora come i vecchi produttori di una volta. A volte siamo stati sul set fino a mezzanotte. Anche lui ha voluto le prove. Mi ha addirittura aiutato stando dietro al monitor quando io ero scena. Mi ha fornito una troupe valida e non ha risparmiato su nulla pur di dare qualità al film. Questo è un film che abbiamo potuto fare solo grazie al produttore. Ammetto che essere sia regista che attore è stato faticoso, ma spero ne sia valsa la pena.

 

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