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Vivvaddio Woody Allen esclude il “politically correct” dalla sua autobiografia

Trama scoppiettante, battute memorabili, penetranti riflessioni sulla vita, con una nota finale triste per le accuse ricevute: è quello che trovate nel suo libro

Vivvaddio Woody Allen esclude il “politically correct” dalla sua autobiografia
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18 Luglio 2020 - 09.50


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di Giuseppe Costigliola

Avete presente un tipico film di Woody Allen? Trama scoppiettante, battute memorabili, penetranti riflessioni sulla vita e divertimento assicurato? È esattamente ciò che troverete nella sua autobiografia (A proposito di niente, pp. 400, € 20.90), che per fortuna un editore illuminato (La nave di Teseo) ha deciso di pubblicare, malgrado la tempesta mediatica che ha travolto il suo autore.

Il libro è modellato sul capolavoro comico di Lawrence Sterne, Vita e opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, testo fondante della letteratura inglese. Evidenti i richiami interni, lo stesso humor sagace, anche qui la narrazione procede per continue digressioni, nel tempo e sui personaggi, costellata di locuzioni come “Riprendiamo il racconto”, “Dove eravamo rimasti?”, “Ma sto divagando”, che trasmettono l’impressione di una conversazione arguta e brillante, condita di gustosissima autoironia e un alto grado di sincerità: in questo libro il politically correct non trova alloggio, vivaddio! Allen mescola sapientemente registri (l’autobiografico, il lirico, il descrittivo), e tecniche (la narrativa, la sceneggiatura), alternando l’uso del passato e del presente, conferendo così freschezza e movimento al racconto, pieno di dialoghi esilaranti e profonde riflessioni. Siamo insomma al cospetto di un libro che sprizza intelligenza, ironia e comicità da ogni riga, toccando argomenti impegnativi con ammirevole levità.

Deliziosi i ricordi dell’infanzia di Allan Stewart Konigsberg (il nome Woody Allen lo avrebbe assunto anni dopo), nato il 1° dicembre 1935 nel quartiere di Brooklyn, in una sana ma litigiosa famiglia appartenente alla piccola borghesia ebraica. Evocate con commosso affetto, le figure che sfilano in queste pagine hanno la vivida realtà e l’umanità dei personaggi di un grande romanzo: il padre, simpatico guascone, uomo senza “alcuna predisposizione a essere il sostegno della famiglia”, la madre, concreta donna di polso e vero pilastro della famiglia, l’amorevole sorella Letty (sua futura produttrice), la cugina che lo inizia al cinema, gli amichetti. E i luoghi: l’appartamento sulla Quattordicesima Strada, la sala cinematografica dove il piccolo Allen trascorreva ore lietissime, i minuti eventi, come l’emozione provata a sette anni quando il padre lo porta a Manhattan, descritta magistralmente in tutta la sua brulicante vitalità. E i ricordi della Seconda guerra mondiale, le passioni di quel tempo lontano: la magia e l’illusionismo (“Ho sempre disprezzato la realtà e bramato la magia”), il baseball (e qui smonta l’equivoco che lo vede negato per lo sport), il jazz, naturalmente il cinema.

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Allen ci tiene a sfatare il mito di un’infanzia sofferta, la definisce anzi “felice”, ed è il primo a meravigliarsi di essere diventato “un nevrotico”, cresciuto in “un mondo in cui non mi sarei mai sentito a mio agio, che non avrei mai capito, che non avrei mai accettato o perdonato”. Gioca comunque molto sull’autodenigrazione: si definisce, a più riprese, “essere abietto”, “ingenuo babbeo”, “smidollato”, “balordo”, “verme spregevole”, “ragazzo stupido e sconnesso dalla realtà”, “imbranato”, “presuntuoso “. Si sofferma sulla propria “ignoranza”, su libri mai letti e film mai visti, smontando così l’altro mito che lo circonda, quello di una persona intellettuale (“Un paio di occhiali non bastano a rendere colta una persona, e tanto meno intellettuale”).

C’è poi il racconto dell’accidentato rapporto con la scuola superiore e con l’università (presto abbandonata), delle prime esperienze con l’universo femminile (una vita amorosa definita “teatro dell’assurdo”), che rivestirà grande centralità nella sua opera, il rapporto con la religione ricevuta, gli inizi come battutista, i maestri e le figure di riferimento, il primo matrimonio, l’esperienza della radio, del cabaret, degli show televisivi, l’ingresso nel mondo del cinema con la sceneggiatura di Ciao Pussycat, gli esordi da regista, il rapporto con gli psicanalisti, l’attività da musicista dilettante, le storie d’amore: insomma, vita privata e dimensione pubblica perfettamente fuse.
Al di là di tutto questo, delle rievocazioni dei suoi film (che faranno felici gli amanti del cinema), dei gustosi aneddoti, degli aforismi e delle battute fulminanti, questa autobiografia è uno straordinario viaggio nel tempo, nella cultura, nello spettacolo e nella società americane: eventi, film, musica, fumetti, sport, radio: c’è tutto il fecondo immaginario di quel Paese, raccontato con sapidissimo brio, mescolando realismo e ironia, dramma e comicità.
Vi compaiono personaggi che sono patrimonio culturale di noi tutti e l’elenco è sterminato: quest’uomo di ottantaquattro anni ha attraversato momenti storici unici. Troverete registi che appartengono al gotha del cinema, grandi scrittori, mostri sacri del jazz, autori di spettacoli celeberrimi, agenti e produttori potentissimi (non manca Weinstein), naturalmente attori, personaggi straordinari da noi poco conosciuti, politici di primissimo piano: un campionario umano ricchissimo. Non mancano poi le città (New York, Los Angeles, Parigi, Londra, Roma, Venezia, Barcellona, Oviedo) con i loro luoghi iconici, protagoniste esse stesse della narrazione.

Una nota di mestizia e sofferenza tinge la parte finale, quando Allen ricostruisce la “surreale avventura” della vicenda delle accuse di molestie rivoltegli dalla ex compagna Mia Farrow e poi dalla figlia Dylan, “dell’orrenda campagna stampa” che lo ha “perseguitato, calunniato e infangato” rendendogli la vita un inferno e il lavoro pressoché impossibile. Nota appena mitigata dalle descrizioni del rapporto con l’attuale moglie, Soon-Yi, “una fonte costante di gioia” (ma il cui modo di cucinare è “un crimine contro l’umanità”).
La sensazione è che Allen affronti questa materia incandescente con equilibrio e piglio fattuale, per quanto, va da sé, le autobiografie sono sempre frutto di scelte ponderate su cosa dire e cosa escludere dal racconto. Pur non risparmiando particolari scabrosi, Allen non dà mai la sensazione di ipocrite vendette: piuttosto, il modo di affrontare quegli eventi dà più l’idea di un’autodifesa, e nel tentativo di legare le proprie esperienze con trame di film noti, regala perle d’intelligenza sul divario tra fiction e realtà: si ritrova così da “tessitore di sogni” a “mostro”. Ognuno potrà farsene l’idea che più gli aggrada, ma Allen, per quanto duramente colpito (“basta essere infangati una volta per essere sempre vulnerabili”), trova anche il modo di pronunciare l’immancabile battuta: “Spero non sia questo il motivo per cui avete comprato questo libro”.

In conclusione, dalla prima all’ultima riga questa autobiografia trasmette un’assoluta sensazione di realtà, della vita che si svolge davanti ai nostri occhi in tutta la sua drammatica, frenetica imprevedibilità, un libro che narra un’esistenza prolificissima, riassunta con un formidabile aforisma: “Tanti stupidi errori compensati da tanta fortuna”, col corollario di un grande rimpianto: non aver mai girato un capolavoro.
Ma su questo in pochi saranno d’accordo, credo. E neanche sul fatto che questo libro narri di una “sciapa saga alleniana”.

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