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Pupi Avati, 80 anni compiuti a novembre, sta per tornare in sala con il suo 50esimo film ‘Il signor diavolo’,tratto dal suo omonimo romanzo.
Il regista si racconta in un’intervista a Vanity Fair, partendo da un traumatico momento della sua infanzia: “A 12 anni mi sveglio all’improvviso in una casetta a Rimini. È la notte del 10 agosto, e mio nonno è venuto a dire a mia madre che mio padre e mia nonna sono morti in un incidente stradale. L’irrompere del dolore più assoluto nella normalità del sonno fa sì che io ogni squillo di telefono lo consideri potenzialmente portatore di notizie drammatiche”.
Dai momenti più tragici dei lutti famigliari alle gioie professionali, Avati racconta una svolta arrivata in modo inatteso nella propria carriera:
“Ero disoccupato da quattro anni, dopo due film andati malissimo, mi consideravo un fallito e Ugo Tograzzi, che non conosco, mi chiama da Parigi: è l’attore più pagato del momento, ha letto per sbaglio un mio copione che la moglie gli ha messo in valigia al posto di uno di Bevilacqua, si candida a fare un mio film, ‘La mazurka del barone’, della santa e del fico furone. Improvviso passo dall’essere quello che si deve cambiare il nome alla star che mi chiede di essere il mio protagonista?”.
Il regista racconta la paura di non essere più considerato in futuro, come capitato anche ai suoi più illustri colleghi cineasti: “Adesso che sono nell’età dei titoli di coda il mio incubo è che non mi chiamino più. Per fortuna non è ancora successo, ma mi ricordo Fellini, cui sono stato molto vicino nei suoi ultimi anni: lo vedevo chiamare il dirigente Rai e la segretaria gli rispondeva ‘Richiameremo noi’, ma non lo faceva”.
Pupi Avati parla anche del suo rapporto con l’anzianità e delle paure che ancora lo tormentano: “Più il tempo davanti a me si accorcia, più quello che sento di dover fare aumenta. Per i miei 80anni mi sono regalato un futuro: ho fatto un elenco di cose da fare, sto recuperando, leggendo libri su libri. Come se l’ultimo giorno della mia vita fosse il mio esame di maturità. Io vengo da una cultura contadina, dove la morte ha un diritto della cittadinanza. Io ho paura! Paura che faccia anche male fisico”.
Il regista si racconta in un’intervista a Vanity Fair, partendo da un traumatico momento della sua infanzia: “A 12 anni mi sveglio all’improvviso in una casetta a Rimini. È la notte del 10 agosto, e mio nonno è venuto a dire a mia madre che mio padre e mia nonna sono morti in un incidente stradale. L’irrompere del dolore più assoluto nella normalità del sonno fa sì che io ogni squillo di telefono lo consideri potenzialmente portatore di notizie drammatiche”.
Dai momenti più tragici dei lutti famigliari alle gioie professionali, Avati racconta una svolta arrivata in modo inatteso nella propria carriera:
“Ero disoccupato da quattro anni, dopo due film andati malissimo, mi consideravo un fallito e Ugo Tograzzi, che non conosco, mi chiama da Parigi: è l’attore più pagato del momento, ha letto per sbaglio un mio copione che la moglie gli ha messo in valigia al posto di uno di Bevilacqua, si candida a fare un mio film, ‘La mazurka del barone’, della santa e del fico furone. Improvviso passo dall’essere quello che si deve cambiare il nome alla star che mi chiede di essere il mio protagonista?”.
Il regista racconta la paura di non essere più considerato in futuro, come capitato anche ai suoi più illustri colleghi cineasti: “Adesso che sono nell’età dei titoli di coda il mio incubo è che non mi chiamino più. Per fortuna non è ancora successo, ma mi ricordo Fellini, cui sono stato molto vicino nei suoi ultimi anni: lo vedevo chiamare il dirigente Rai e la segretaria gli rispondeva ‘Richiameremo noi’, ma non lo faceva”.
Pupi Avati parla anche del suo rapporto con l’anzianità e delle paure che ancora lo tormentano: “Più il tempo davanti a me si accorcia, più quello che sento di dover fare aumenta. Per i miei 80anni mi sono regalato un futuro: ho fatto un elenco di cose da fare, sto recuperando, leggendo libri su libri. Come se l’ultimo giorno della mia vita fosse il mio esame di maturità. Io vengo da una cultura contadina, dove la morte ha un diritto della cittadinanza. Io ho paura! Paura che faccia anche male fisico”.