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Che lingua parlavano Romolo e Remo? Il 31 arriva nelle sale il film di Matteo Rovere

Lo sceneggiatore Filippo Gravino ci spiega la genesi dell'idioma parlato dai personaggi, elaborato dagli studiosi de 'La Sapienza'

Che lingua parlavano Romolo e Remo? Il 31 arriva nelle sale il film di Matteo Rovere
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27 Gennaio 2019 - 17.45


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Che lingua si parlava nel Lazio otto secoli prima di Cristo? Sull’Agi.it Andrea Cauti ci racconta che c’era un mosaico di popolazioni e idiomi differenti, c’erano i popoli pre-indoeuropei (come gli Etruschi) e c’erano quelli di origine indoeuropea (tra cui gli Osci). Era probabile, dunque, che le contaminazioni fossero frequenti e naturali al punto che la lingua, primordiale, fosse una sintesi tra tutte quelle dei popoli della zona. Di certo non si parlava latino, visto che gli studiosi hanno testimonianze del cosiddetto latino arcaico risalenti al terzo secolo avanti Cristo. Prima di allora ci sono solo testimonianze delle lingue di Etruschi e Osci.

Ritorniamo quindi alla domanda iniziale: che lingua parlavano Romolo e Remo? “La lingua ipotizzata, la più probabile dal punto di vista filologico è quella che gli studiosi dell’Università di Roma La Sapienza hanno messo a punto per ‘Il primo Re’ di Matteo Rovere. La risposta viene da Filippo Gravino, sceneggiatore insieme a Francesca Manieri e allo stesso regista del film che rivisita le origini di Roma in sala dal prossimo 31 gennaio con 01 Distribution. Nella pellicola Remo (Alessandro Borghi), Romolo (Alessio Lapice) e tutti i personaggi degli ex schiavi o degli abitanti dei villaggi laziali parlano in una lingua che assomiglia lontanamente al latino classico.

“Volevamo essere realistici il più possibile per cui siamo partiti dall’idea di far tradurre la nostra sceneggiatura in latino. Poi però ci siamo interrogati su come si esprimessero i popoli laziali dell’VIII secolo avanti Cristo – spiega Gravino all’Agi – e lo abbiamo chiesto a un gruppo di linguisti dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma. Ci hanno fatto due proposte: una era il latino imperiale, quello che abbiamo studiato a scuola. Ma era una lingua aulica, certamente molto lontana da quella primitiva parlata nell’VIII secolo avanti Cristo. Quindi ci hanno proposto, inviandoci anche dei file audio, un’altra lingua, basata sul latino arcaico, il proto-latino di cui si conosce la struttura, integrata con parole ed espressioni degli etruschi e degli osci, popoli che erano vissuti nel Lazio molti secoli prima”.

Ci è sembrata la direzione giusta – aggiunge lo sceneggiatore – proprio perché quell’idioma era più barbarico, più arcaico rispetto al latino”. Il risultato è sorprendente e coerente con i personaggi e l’epoca che si vuole raccontare.

Nel film di Matteo Rovere, infatti, i dialoghi non sono mai complessi e ci sono pochi momenti in cui – soprattutto i due protagonisti o la vestale (Tania Garribba) – pronunciano discorsi lunghi. “Abbiamo pensato che la lingua parlata all’epoca di Romolo e Remo fosse utilizzata soprattutto per riferimenti esterni, per cui abbiamo pensato di scarnificarla, renderla semplice – spiega ancora Gravino all’Agi – ma al tempo stesso che ci permettesse di toccare archetipi fondanti come la morte, l’idea del divino e tutto quello che aveva a che fare con la sopravvivenza. Quindi abbiamo scritto il copione in un italiano scarnificato, avendo fin dall’inizio l’idea di farlo tradurre”.

Le ipotesi su cui Rovere, anche produttore del film insieme a Andrea Paris, e gli sceneggiatori hanno lavorato erano tre: far recitare i personaggi in una “lingua probabile”, farli recitare in latino classico o in inglese. “Eravamo sicuri al 90 per cento che avremmo tradotto la sceneggiatura – spiega Gravino – anche perché vedere attori riconoscibili che parlano come se stessero in una tragedia shakespeariana ci sembrava un po’ bislacco. Se vogliamo, avrebbero dovuto parlare un italiano perfetto, da doppiatore per intenderci, senza inflessioni dialettali. Ma a quel punto ci sembrava meglio allora utilizzare l’inglese”.

“L’idea da cui siamo partiti era di trovare una forma di realismo – aggiunge lo sceneggiatore – e ci è sembrato ovvio declinare questo realismo anche sull’idea della lingua. Abbiamo ovviamente pensato a ‘La passione di Cristo’ e ‘Apocalypto’ di Mel Gibson: siamo andati a rivedere quei film per capire se quel sound, quell’idea di immersione totale, avesse una sua potenza. Ed è così: la lingua aiuta lo spettatore a sganciarsi per due ore in maniera assoluta e definitiva, a immergersi totalmente nel film”.

In quanto al rischio che i sottotitoli possano penalizzare il film, Gravino sottolinea che “la fruizione del sottotitolo, soprattutto per un pubblico più giovane, è la normalita’ e non penso che possa allontanare il pubblico”. Una volta completato il lavoro di sceneggiatura e di traduzione, la difficoltà era quella di far recitare in una lingua inventata gli attori, che hanno preparato le loro parti su copioni scritte in due lingue, due colonne: una in italiano e una nella lingua ‘sintetizzata’ dagli studiosi della Sapienza.

“Hanno fatto un lavoro eccezionale – sottolinea Gravino – perché, seppure aiutati dal fatto che non c’erano troppi dialoghi, avevano comunque alcuni ‘speech’ e dovevano riuscire a far corrispondere le parole ai sentimenti. Su questo hanno fatto un lavoro straordinario, anche perché hanno lavorato in condizioni estreme, nel fango, con la pioggia, costantemente nudi, al freddo. I protagonisti imparavano a memoria i due testi e poi dovevano introiettare in maniera consapevole, attoriale, quello italiano. Per me hanno fornito una prova da actors’ Studio”.

 

 
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