di Enzo Verrengia
Stephen King è la vena d’oro di Hollywood. Non occorreva leggerlo in un recente articolo dedicatogli su The Guardian. Certo, questa che va a concludersi è più di ogni altra la sua estate. Con il clamoroso successo dell’adattamento cinematografico del western distopico La torre nera, di Nicolaj Arcel, e quello in arrivo di It, di Andrés Muschietti, che ripropone la saga terrificante del clown Pennywise, dopo la versione televisiva diretta nel 1990 da Tommy Lee Wallace. Inoltre, sul piccolo schermo è attesa la nuova stagione di The Mist, in cui la nebbia promette nuovi e incomparabili orrori.
Ciononostante, sarebbe fuorviante ascrivere il fenomeno King al puro circuito commerciale. Una volta, lo scrittore Harlan Ellison, anche lui maestro di portenti, sostenne che se in futuro si fosse avvertito il bisogno di capire l’America di oggi, solo King poteva soddisfarlo. Non i grandi autori dell’accademia e dell’avanguardia. Bensì un nome da best-seller, da libroni formato dizionario votati a durare quanto una vacanza in spiaggia, invece rappresi nei loro momenti di forza evocativa.
«Scrivere è magia; è acqua della vita come qualsiasi altra attività creativa. L’acqua è gratuita. Dunque bevete. Bevete e dissetatevi.» Pochi oltre King userebbero un’immagine così vera per definire la professione del narratore. Lui l’ha fatto nel suo libro più autentico e insieme più carico di senso del meraviglioso, On Writing. Non un soverchio e trito manuale di scrittura creativa, bensì un reportage sulle corde più intime di se stesso. In quella sede evocava la passione e la maestria dei carpentieri.
Le doti dello scrittore si trovano nella “scatola degli attrezzi”. Paragone che King prestò al romanziere Mike Noonan, in Mucchio d’ossa. Lì, però, le divagazioni sul talento e le tecniche del narratore dovevano restare confinate ai margini di ciò che per King conta di più: la storia. On Writing, al contrario, non aveva questi vincoli, dato che il tema era proprio la scrittura.
Fuori dal libro, Stephen King resta un demiurgo dell’invenzione affabulata. L’ambiente, l’esposizione, i personaggi, il dialogo, la cadenza sono gli elementi vivi di ogni sua sortita in prosa. Scaturiti da un’epopea autobiografica quasi ignota ai più. Ripercorrendola negli aspetti più controversi, ci si spiega fino in fondo le ragioni e i metodi attraverso i quali King ha maturato le proprie scelte. Il padre andato via di casa e la madre che si trascina qua e là, un fratello maggiore ingegnoso quanto Mycroft lo è per Sherlock Holmes, lettere di rifiuto ai primi tentativi di pubblicazione. Paradossalmente, non è il fallimento ma l’affermazione che porta King all’alcolismo e alla droga. Senza additivi etilici e stupefacenti, non regge il ritmo di produzione impostogli dal mercato editoriale, tanto più spietato all’ombra della crisi che dapprima sembra assegnare il primato al digitale, per poi ripiegare di nuovo dall’eBook al cartaceo.
Cade ogni dubbio su certi tratti che di lui si ritrovano nei protagonisti di Shining, La metà oscura e Misery. Attenzione però a non scambiare tutto questo per genio e sregolatezza. King trasuda volontà di seguire una linea di condotta morale nel quotidiano prima ancora che nella finzione delle storie. Si disintossica e ritrova l’equilibrio nella scrittura, alla stessa maniera dei suoi autori fittizi. È l’unica per mantenere un legame con la gente, cui vanno i frutti di tante fatiche.
Infatti, il succo dello stile, secondo questo campione delle vendite in libreria, sta nel rivolgersi al cuore degli altri. Non inseguire profitti e basare le trame sulle tendenze del mercato. King sostiene a più riprese che la scrittura è verità.
Fedele al principio, lo applica ancora una volta su di sé superando la tragedia di un’altra estate fatale per lui, quella del 1999. Investito da un furgone, King si difese a dentri stretti dalla morte per diversi giorni, calato di forza in una vicenda perfetta per i suoi romanzi. Scava nelle sensazioni più dirette e la scrittura ne esce, se possibile, più aspra e nel contempo più limpida. Messaggio da inculcare a chi, specialmente nell’Italia dei “giovani autori” e dei satrapi dell’establishment, quando scrive realizza soltanto parodie della letteratura.