La morte di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano sequestrato, torturato e ammazzato forse da servizi segreti egiziani “deviati”, ci spinge a ripensare ancora una volta alla tragica fine di Pier Paolo Pasolini e all’eterno, spinoso rapporto tra intellettuali e potere.
Come diceva Jean Paul Sartre, e anche lo stesso Pasolini, un intellettuale non è soltanto un individuo che usa come strumento di lavoro il proprio intelletto e risulta fornito di titoli accademici adeguati. Secondo Sartre e Pasolini, un intellettuale è essenzialmente la sentinella insonne del sistema democratico. Ne individua le contraddizioni e le segnala all’opinione pubblica, con coraggio intellettuale appunto, in nome dei valori fondamentali su cui si basa una democrazia.
Giulio Regeni è stato torturato per ore e il suo corpo è stato poi abbandonato in strada sprovvisto di mutande e pantaloni, probabilmente per insinuare che il ragazzo fosse un omosessuale spericolato alla ricerca di avventure erotiche. Si voleva quindi poter affermare che “se l’era andata a cercare”, come disse Giulio Andreotti all’indomani della barbara uccisione di Pier Paolo Pasolini all’Idroscalo.
Subito dopo, le autorità egiziane hanno cercato di accreditare un’altra versione, sostenendo la tesi dell’incidente stradale. Ma quest’ultima faceva ovviamente a schiaffi con quella precedente, data l’insostenibile stranezza della vittima di un incidente stradale sprovvista di mutande e pantaloni. Anche in questo caso, l’analogia con il Delitto Pasolini appare piuttosto evidente, dal momento che la giustizia italiana ha voluto credere e farci credere per quarant’anni che il poeta morì a causa della scarsa dimestichezza alla guida di Pino Pelosi e che fu proprio quel ragazzino minorenne a uccidere Pasolini “per errore” passando sul suo corpo con l’Alfa GT del poeta. Peccato che l’auto passò più volte sul corpo di Pasolini, avanti e indietro. Senza contare che il corpo di Pasolini si trovava nella direzione opposta rispetto all’unica uscita dallo sterrato dell’Idroscalo, e di conseguenza Pelosi, fuggendo da quel luogo, avrebbe dovuto fare una manovra del tutto immotivata per ucciderlo “accidentalmente”.
Siamo indubbiamente orgogliosi della fermezza delle dichiarazioni di due ministri della Repubblica Italiana, Paolo Gentiloni (“Non ci accontenteremo di verità di comodo”) e Angelino Alfano (“Abbiamo dovuto vedere dagli esiti dell’autopsia qualcosa di inumano, animalesco, di una violenza inaccettabile”) che pretendono a gran voce la verità sulla morte del nostro connazionale Giulio Regeni. Le loro parole sono le parole di tutti noi che vogliamo sapere come e perché è stato torturato e ucciso un ragazzo italiano mite, sensibile, infaticabile e altruista.
La rapidità delle indagini dei nostri investigatori e medici legali lascia ben sperare. Se poi il regime di Al Sisi finirà per aiutarci davvero a fare luce sull’accaduto, assisteremo ad un autentico miracolo. Dopotutto, l’Egitto non è un paese democratico e non pretende nemmeno di esserlo. Al Sisi e’ andato al potere sostituendo un regime indubbiamente peggiore, quello dei Fratelli Musulmani, e il generale ha preso le redini della situazione soltanto dopo che milioni e milioni di egiziani erano scesi in strada rischiando la vita pur di non essere più governati dai fondamentalisti islamici.
Noi per fortuna viviamo in un altro mondo e in un altro modo. La Repubblica Italiana sta per compiere 70 anni e rappresenta una consolidata democrazia europea.
Eppure, noi italiani ci siamo spesso accontentati di verità di comodo. Non conosciamo per fortuna i raccapriccianti esiti dell’autopsia di Giulio Regeni di cui parla Alfano. Ma ricordiamo perfettamente la descrizione di ciò che restava di Pier Paolo Pasolini la mattina del 2 novembre 1975 sullo sterrato dell’Idroscalo: “Quando il suo corpo venne ritrovato, Pasolini giaceva disteso bocconi, un braccio sanguinante scostato e l’altro nascosto dal corpo. I capelli impastati di sangue gli ricadevano sulla fronte, escoriata e lacerata. La faccia deformata dal gonfiore era nera di lividi, di ferite. Nerolivide e rosse di sangue anche le braccia, le mani. Le dita della mano sinistra fratturate e tagliate. La mascella sinistra fratturata. Il naso appiattito deviato verso destra. Le orecchie tagliate a metà, e quella sinistra divelta, strappata via. Ferite sulle spalle, sul torace, sui lombi, con il segno degli pneumatici della sua macchina sotto cui era stato schiacciato. Un’orribile lacerazione tra il collo e la nuca. Dieci costole fratturate, fratturato lo sterno. Il fegato lacerato in due punti. Il cuore scoppiato”.
Eppure, l’assassino aveva soltanto una minuscola macchia del sangue di Pasolini su un polsino. Eppure, la Giustizia Italiana ha da tempo sentenziato in modo definitivo che Pier Paolo Pasolini fu ucciso per sbaglio dal gracile fanciullo Pino Pelosi. Nel 1976, al termine del primo processo presso il Tribunale dei Minori, il giudice Carlo Alfredo Moro condannò Pelosi per omicidio in concorso con ignoti. Nel 1979, nel secondo processo presso la Corte d’Appello di Roma, il giudice Ferdinando Zucconi Galli Fonseca spazzò via gli ignoti con motivazioni spesso alquanto originali (vi si legge che un maglione ritrovato nell’Alfa GT di Pasolini, che non era né di Pelosi né di Pasolini, non poteva appartenere a un eventuale altro aggressore perché quella notte faceva freddo). Eppure, la temperatura era di 13 gradi centigradi.
Ferdinando Zucconi Galli Fonseca è un illustre magistrato e fortunatamente è ancora tra noi. Ci piacerebbe molto potergli chiedere cosa pensa oggi, a tanti anni di distanza, della sua sentenza.
Nel 2010, l’avvocato Stefano Maccioni e la criminologa Simona Ruffini sono riusciti a far riaprire il caso chiedendo l’esame del DNA sui reperti trovati all’Idroscalo. Nel 2015 sono stati trovati altri cinque DNA presenti sulla scena del delitto. Poco dopo, il Caso Pasolini è stato nuovamente archiviato con la semplice motivazione che a quarant’anni di distanza gli altri assassini di Pasolini potrebbero essere tutti passati a miglior vita.
Quarant’anni fa, il premier Matteo Renzi era ancora alle prese con il biberon, Matteo Salvini aveva appena imparato a camminare, mentre Maria Elena Boschi, Luigi Di Maio e Vittorio Di Battista sarebbero nati soltanto anni dopo. Non è forse lecito aspettarsi che questa giovane, benvenuta, nuova classe politica ci liberi una volta per tutte della verità di comodo del Delitto Pasolini?
Esistono forti probabilità che in seguito a una petizione firmata da numerosi cittadini venga presto istituita una commissione parlamentare per far ripartire le indagini sulla tragica fine di uno dei più grandi intellettuali italiani ed europei del secolo scorso. Vogliamo sperare che questa occasione non venga mancata, per poter rivendicare ancora il diritto di indignarci contro chi, come forse il governo egiziano, vorrebbe somministrarci una verità di comodo.
*(autore del libro e del film intitolati “La Macchinazione”)