Ecco un video, dall’archivio Rai, in cui Pier Paolo Pasolini parla della “Forma della città”. Qui di seguito è trascritto il testo integrale del film dedicato alla città di Orte.
PASOLINI (con una telecamera e rivolto a Ninetto) Io ho scelto una città, la città di Orte, cioè praticamente ho scelto come tema la forma di una città, il profilo di una città. Ecco, quello che vorrei dire è questo: io ho fatto un’inquadra-tura che prima faceva vedere soltanto la città di Orte nella sua perfezione stilistica, cioè come forma perfetta, assoluta, ed è più o meno un’inquadratura così… Basta che io muova questo affare qui nella macchina da presa, ed ecco che la forma della città, il profilo della città, la massa architettonica della città è incrinata, è rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo. C’è quella casa che si vede là a sinistra, la vedi? Ecco, questo è un problema di cui io parlo con te, perché non sono capace di parlare in astratto, rivolto al vuoto, al pubblico televisivo che non so dov’è, dove si trova. Parlo con te che mi hai seguito in tutto il mio lavoro e mi hai visto molte volte alle prese con que-sto problema. Tante volte sono andato a girare fuori dall’Italia, in Marocco, in Persia, in Eritrea, e tante volte avevo il proble-ma di girare una scena in cui si vedesse una città nella sua com-pletezza, nella sua interezza, e quante volte mi hai visto soffrire, smaniare, bestemmiare perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualco-sa di moderno, da qualche corpo estraneo che non c’entrava con questa forma della città, con questo profilo della città, così severo.
Siamo adesso di fronte a Orte da un altro punto di vista. C’è la solita bruma azzurro-bruna della grande pittura nordica rina-scimentale. Se la inquadro, vedo un totale ancora più perfetto di quello di prima. Cioè la forma della città è proprio nella sua perfezione massima. Ma se panoramico da sinistra a destra, quello che ti dicevo prima risulta in modo ancora molto più grave. Infatti la città, dal nostro punto di vista all’estrema destra, finisce con uno stupendo acquedotto su quel terreno bru-no. E immediatamente attaccate all’acquedotto ci sono altre case moderne, dall’aspetto non dico orribile, ma estremamente mediocre, povero, senza fantasia, senza invenzione; insomma case popolari, che sono assolutamente necessarie, non dico di no, ma che lì sono un altro elemento disturbatore della perfe-zione della forma della città di Orte, come la casa che abbiamo visto prima. Ora cos’è che mi dà tanto fastidio, anzi direi quasi una specie di dolore, di offesa, di rabbia, nella presenza di quelle povere case popolari, che comunque devono esserci? Il problema era semmai quello di costruirle da un’altra parte, in-somma, di prevedere di poterle costruire da un’altra parte. Dunque, che cos’è che mi offende in loro? E il fatto che appar-tengono a un altro mondo, hanno caratteri stilistici completa-mente diversi da quelli dell’antica città di Orte e la mescolanza delle due cose infastidisce, è un’incrinatura, un turbamento della forma, dello stile.
Questo io forse lo soffro in modo particolare, non soltanto per-ché ho un senso estetico forse esagerato, eccessivo, da anima bella, ma anche perché ho tanto lavorato su dei film storici, in cui questo problema era proprio un problema pratico. Perché questo non è un difetto solo italiano, ma è un difetto di tutto il mondo ormai, soprattutto del Terzo Mondo. Non so, per esem-pio in Persia, dove c’è un regime completamente diverso dal no-stro, dove c’è una specie di imperatore, lo Scià, lì succedono le stesse cose, forse ancora peggiori. Per esempio, mi viene in men-te una stupenda città che si chiama Yazd, sul Golfo Persico vici-no al deserto, una città meravigliosa perché tutte le città aveva-no un sistema di ventilazione antico, di due, tremila anni fa, che era rimasto intatto: delle colonnine che raccoglievano il vento e lo facevano entrare dentro la città. Quindi il panorama della città era dominato da questa specie di ventilatori che sembrava-no un po’ dei tempietti greci arcaici o egiziani, insomma, una cosa stupenda. Beh, questa città, quando sono arrivato lì io, era distrutta, come se ci fosse stato un bombardamento a tappeto. Lo Scià la faceva distruggere per dimostrare ai suoi sudditi, al suo popolo, che la Persia era un paese moderno, che avanzava, eccetera eccetera. Ma questo succede anche in paesi che sono esattamente il contrario della Persia, cioè in paesi comunisti: lo stato dell’Aden del Sud, lo stato di Aden, dove c’è al governo addirittura un gruppo di comunisti estremisti. Bene, lì, c’era un’antica città sul mare che si chiama Al Mukalla. Questa città di Al Mukalla aveva verso la terraferma una stupenda porta, gigantesca, di granito, bianca come tutto il resto della città. Ora siccome an-che ad Al Mukalla un pochino il traffico è aumentato, dopo la liberazione dello stato di Aden dagli emiri eccetera eccetera, c’era qualche furgone in più e la porta era stretta, cosa hanno fatto? L’hanno fatta saltare, ed erano fieri di aver fatto saltare questa stupenda porta. Dicevano addirittura con grande fierez-za «la rivoluzione ha liberato Al Mukalla da questo ingombro del passato». Senza parlare di Sana’a, ti ricordi? Quella stupen-da città dello Yemen del Nord posata sul deserto come una specie di rustica Venezia, che stanno già distruggendo, hanno già praticamente finito di distruggere tutte le mura che la ci-condavano e quindi davano la sua forma, quella assolutezza meravigliosa delle città antiche.
Oppure nel Nepal, che è effettivamente ancora molto intatto, soprattutto la città di Bhatgaon, è ancora quasi com’era tremila anni fa, però Katmandou è già praticamente distrutta in quan-to forma, rimangono i monumenti, ma non è dei monumenti che si tratta, non son quelli il problema, quelli è facile salvarli, è l’intera forma della città che è difficile salvare. Dunque questo è un problema che si pone in tutti i paesi del mondo, ma naturalmente ciò che mi turba e mi ferisce di più è che questo avvenga in Italia.
Una fotografia recente della città di Orte. In primo piano, l’acquedotto, seminascosto dagli alberi
Ora, a proposito della città di Orte, vorrei aggiungere una cosa: avendo io scelto come tema del mio argomento la forma della città, vorrei precisare che la forma della città si manifesta, appa-re, si rivela se confrontata con un fondale naturale. Perciò la for-ma della città di Orte appare in quanto tale perché è sulla cima di questo colle bruno, divorato dall’autunno, con questa curva-tura davanti e contro il cielo grigio. Ora, quelle case che ti ho ci-tato prima, quelle case popolari, che cosa vengono a turbare? Vengono a turbare, soprattutto, il rapporto fra la forma della città e la natura. Ora il problema della forma della città e il pro-blema della salvezza della natura che circonda la città, sono un problema unico. Ma sempre si pone il problema di rispettare il confine naturale tra la forma della città e la natura circostante. Ora il caso della città di Orte è un caso ancora bellissimo. Ecco, il panorama è ancora praticamente perfetto, a parte questo di-fetto sia pur doloroso che ti ho detto. Ma mentre per Orte si può parlare soltanto di lieve danneggiamento, di difetto, per quel che riguarda in generale la situazione dell’Italia, delle forme del-le città nella nazione italiana, la situazione è invece decisamente irrimediabile e catastrofica.
Questa strada per cui camminiamo, con questo selciato sconnes-so e antico, non è niente, non è quasi niente, è un’umile cosa. Non si può nemmeno confrontare con certe opere d’arte, d’autore, stupende, della tradizione italiana, eppure io penso che questa stradina da niente, così umile, sia da difendere con lo stes-so accanimento, con la stessa buona volontà, con lo stesso rigore con cui si difende un’opera d’arte di un grande autore. Esatta-mente come si deve difendere il patrimonio della poesia popola-re anonima come la poesia d’autore, come la poesia di Petrarca o di Dante, eccetera eccetera. E così il punto dove porta questa strada, quella antica porta della città di Orte, anche questo non è quasi nulla, vedi? Sono delle mura semplici, dei bastioni, dal co-lore così, grigio, che in realtà nessuno si batterebbe (con rigore, con rabbia) per difendere questa cosa. E io ho scelto invece pro-prio di difendere questo. Quando dico che ho scelto come og-getto di questa trasmissione la forma di una città, la struttura di una città, il profilo di una città, voglio proprio dire questo: voglio difendere qualcosa che non è sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende e che è opera, diciamo così, del popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una città. Di una infinità di uomini senza nome, che però hanno lavorato all’inter-no di un’epoca che poi ha prodotto i frutti più estremi, più asso-luti, nelle opere d’arte d’autore. Ed è questo che non è sentito, perché chiunque, con chiunque tu parli, è immediatamente d’accordo con te nel dover difendere un’opera d’arte d’un auto-re, un monumento, una chiesa, la facciata di una chiesa, un campanile, un ponte, un rudere il cui valore storico ormai è assodato. Ma nessuno si rende conto che invece quello che va difeso è pro-prio questo anonimo, questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare.
Eccoci di fronte alla struttura, alla forma, al profilo di un’altra città immersa in una specie di grigia luce lagunare, benché in-torno ci sia una stupenda macchia mediterranea. Si tratta di Sabaudia. Quanto abbiamo riso noi intellettuali sull’architettu-ra del regime, sulle città come Sabaudia. Eppure adesso osser-vando questa città proviamo una sensazione assolutamente ina-spettata. La sua architettura non ha niente di irreale, di ridicolo. Il passare degli anni ha fatto sì che questa architettura di carattere littorio assuma un carattere, diciamo così, tra metafisico e realistico. Metafisico in un senso veramente europeo della parola, cioè ricorda mettiamo la pittura metafisica di De Chirico, e realistico perché, anche vista da lontano, si sente che le città sono fatte, come si dice un po’ retoricamente, a misura d’uomo. Si sente che dentro ci sono delle famiglie costituite in modo regolare, delle persone umane, degli esseri viventi com-pleti, interi, pieni, nella loro umiltà.
Come ci spieghiamo un fatto simile che ha del miracoloso? Una città ridicola, fascista, che improvvisamente ci sembra così in-cantevole? Bisogna esaminare un po’ la cosa, cioè: Sabaudia è stata creata dal regime, non c’è dubbio, però non ha niente di fa-scista, in realtà, se non alcuni caratteri esteriori. Allora io penso questo: che il fascismo, il regime fascista, non è stato altro, in conclusione, che un gruppo di criminali al potere. E questo gruppo di criminali al potere non ha potuto in realtà fare niente, non è riuscito a incidere, nemmeno scalfire lontanamente la realtà dell’Italia. Sicché Sabaudia, benché ordinata dal regime secondo certi criteri di carattere razionalistico, estetizzante, ac-cademico, non trova le sue radici nel regime che l’ha ordinata, ma trova le sue radici in quella realtà che il fascismo ha domina-to tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire. Dunque, è la realtà dell’Italia provinciale, rustica, paleo-industriale eccetera eccetera, che ha prodotto Sabaudia, e non il fascismo.
Ora invece succede il contrario. Il regime è un regime democra-tico eccetera eccetera, però quella acculturazione, quella omo-logazione che il fascismo non è riuscito assolutamente a ottene-re, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce ad ottenere perfettamente: distruggendo le varie realtà particuolari, togliendo realtà ai vari modi di essere uomini che l’Italia ha, che l’Italia ha prodotto in modo storicamente molto differenziato. E allora questa acculturazione sta distrug-gendo, in realtà, l’Italia; allora posso dire senz’altro che il vero fascismo è proprio questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. E questa cosa è avvenuta talmente rapi-damente che, in fondo, non ce ne siamo resi conto, è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni. È stato una specie di incubo, in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi di-struggersi e sparire. Adesso, risvegliandoci forse da questo in-cubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.