Addio a Dondero: l’umanità della gente fotografata in bianco e nero | Giornale dello Spettacolo
Top

Addio a Dondero: l’umanità della gente fotografata in bianco e nero

Il fotoreporter è morto a 87 anni. Interessato alla denuncia sociale più che all’arte, con la sua Leica ha raccontato guerre e soprattutto la gente comune.

Addio a Dondero: l’umanità della gente fotografata in bianco e nero
Preroll

GdS Modifica articolo

14 Dicembre 2015 - 15.00


ATF

“Sono nato uno che guarda”. Diceva questo di sé, Mario Dondero, a chi gli chiedeva come ha imparato a fotografare. “Non è che ho imparato, fotografo in una certa maniera che alcuni considerano singolare, ma a me quello che interessa è la funzione che può avere l’immagine, la sua importanza”.

Stava tutta qui la poetica di Dondero, fotografo interessato più al contenuto di una fotografia che alla sua estetica, alla denuncia sociale più che all’arte. Mario Dondero se n’è andato, il 13 dicembre 2015, in una casa di cura vicina alla sua Fermo, la città in cui aveva scelto di vivere, dopo una malattia durata alcuni mesi. Aveva 87 anni, la maggior parte dei quali trascorsi a guardare il mondo attraverso un obiettivo.

Nato a Milano ma originario di Genova, Dondero è stato partigiano in Val d’Ossola e giornalista del primo Dopoguerra. Ha scoperto la fotografia quasi per caso, e non l’ha più lasciata. Viaggiatore instancabile, fin quando ha potuto, Dondero ha collaborato con alcune delle testate più importanti al mondo e con le sue immagini ha raccontato la Guerra d’Algeria, ma anche gli scrittori del Nouveau Roman prima che diventassero famosi, il lavoro dei medici di Emergency in Afghanistan, il disastro della motonave Elisabetta Montanari, e poi un numero incredibile di artisti e intellettuali, politici, registi, l’Africa, Cuba, l’Urss ma soprattutto la gente comune. Sempre con in mente i grandi nomi del reportage, Robert Capa su tutti, con cui condivideva la stessa idea di impegno civile.

Amico della Comunità di Capodarco di Fermo e di Redattore Sociale, Mario Dondero è stato ospite più volte a Capodarco, l’ultima nel 2014, e prima ancora nel 2011 dove è stato intervistato dal critico letterario e scrittore Massimo Raffaeli sul tema del seminario “Bulimie”, declinato rispetto alla fotografia e alle immagini.

“Il digitale porta alla bulimia”, ha detto Mario Dondero durante l’intervista al seminario di Capodarco. E ha stigmatizzato “l’ardita ferocia con cui i fotografi si accalcano per razziare la faccia di una persona”. Lui che è rimasto affezionato alle sue macchine fotografiche analogiche, ha però ammesso che “il digitale è democratico, costa meno, allarga gli orizzonti e permette a chi prima non aveva i soldi per comprarsi la pellicola di diventare un fotografo, magari formidabile”. E sull’uso del colore o del bianco e nero, quest’ultimo considerato “fonte di poesia, qualcosa di più alto, più nobile, più affascinante”, Dondero ha raccontato che “ci sono situazioni spettacolo che vanno raccontate a colori, ma i grandi temi, la storia, i drammi, le miserie, le sofferenze, l’umanità della gente è meglio fotografarla in bianco e nero. È più intenso”.

“Se non avessi visto le foto di Capa, magari non avrei neanche fatto il fotografo”. Nonostante l’ammirazione per fotografi come Sebastiao Salgado o Henri Cartier-Bresson, Dondero ha dichiarato di amare Capa perché ha toccato dei livelli di straordinaria capacità di raccontare il mondo com’è: “Salgado fa foto formidabili, solo che ti mostra una favela che sembra una scena teatrale meravigliosa e tu ti dimentichi che sei dentro una miseria terribile, certo poi ci sono altre foto, lui ha un talento naturale, un gusto proprio dell’armonia visiva, ma a me interessa raccontare le cose come sono, sono infastidito da troppo sperimentalismo che si allontana dal racconto del vero – ha detto – I giovani fotografi di oggi non pensano alla foto, ma alla mostra e le storie non ci sono più”.

La fotografia che lo ha reso celebre è quella che ha scattato a Parigi, sul marciapiede davanti alle Éditions de Minuit a Saint-Germain-de-Prés, in cui si vedono gli scrittori del Nouveau Roman. Quella che Mario Dondero considerava la “più intensa che ho fatto” è quella che ha scattato ai prigionieri durante il conflitto algero-marocchino, come ha raccontato a Massimo Raffaeli a Capodarco: “Fotografare prigionieri è estremamente delicato – spiegava – perché tu stai dalla parte dei guardiani e sei visto come un nemico, invece quella volta credo di essere riuscito a stabilire, in silenzio nello sguardo di questi uomini e del mio, un rapporto di solidarietà e ho fatto una foto che ritengo la mia migliore in assoluto”.

E poi ci sono le fotografie che avrebbe voluto fare ma che non ha scattato. Come quella a Marc Chagall che lo cacciò dal suo appartamento perché Dondero non gli aveva mostrato il tesserino da giornalista o quella a Bertolt Brecht al Piccolo Teatro di Milano, “stavo per fare clic ma qualcuno dello staff mi ha detto ‘il maestro non ama essere fotografato’ e io non ho fatto clic”. E ancora il reportage a casa del pittore André Masson, ormai 90enne, che la famiglia voleva far ritrarre nello studio che lui non usava più e a cui Dondero si è sottratto dicendo che gli si era rotta la macchina fotografica. “Di reportage ne ho falliti una quantità industriale, per tante ragioni”. Perché, come amava ripetere, “non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono”. (lp)

Native

Articoli correlati