di Alessia de Antoniis
Sul palco dell’ Off/Off Theatre di Via Giulia, Galatea Ranzi è protagonista di “Lezione da Sarah”. Liberamente ispirato a “L’Arte del Teatro” di Sarah Bernhardt, la pièce è una rielaborazione drammaturgica di Pino Tierno con la regia di Ferdinando Ceriani, che dirige in scena Galatea Ranzi e Martina Galletta.
Un palcoscenico vuoto. Negli angoli bui si intravedono bauli, riflettori, materiale di attrezzeria accatastati alla meno peggio. Sul proscenio, un tavolino con sopra un vaso di peonie. Dal buio del fondo palco si affaccia una ragazza con una borsa piena di copioni e libri. È incerta se entrare o meno, sembra spaurita. Improvvisamente, una persona, in platea, tra il pubblico, le grida: “Avanti!”: è Sarah Bernhardt, interpretata da Galatea Ranzi, l’attrice feticcio di Luca Ronconi.
Ma perché un’attrice feticcio? Il suo lavoro da solo non basta per qualificarla?
Galatea Ranzi sorride per questa etichetta che fa fatica a togliersi. “Non l’ho mai apprezzato e neanche lui (Luca Ronconi – nda). Ricordo quando, parlando di me, dicevano in continuazione “ronconiana” e lui disse: no, ognuno ha il proprio stile.
Una lunga e variegata carriera alle spalle. Si trova sempre a suo agio sulle famose tavole del palcoscenico? Ha mai subito una regia che non l’ha messa a suo agio?
Poche volte. Sono stata abbastanza fortunata e ho incontrato persone interessanti. È stata anche anche una questione di scelta. E poi ho avuto la possibilità di scegliere e il mio istinto mi ha sempre guidata nella direzione migliore.
Ha interpretato vari ruoli femminili della tragedia greca. Le tragedie greche sono portatrici di archetipi. Andrebbero rilette in chiave diversa o sono ancora oggi una grande denuncia? Quanto sono lattici di stereotipi da superare?
Sono ancora oggi validissime. Sono eterne. Non mi piace usare il termine attuali. Sono i capisaldi della psicoanalisi e rivisitarle è utilissimo. È sempre stato fatto ed è un processo che è iniziato già nell’antichità. Vari autori le hanno rielaborate nei secoli. I tragici stessi rilavoravano un mito, quindi nei secoli abbiamo assistito a un continuo lavorio di questi temi. Possono essere stereotipi in quanto archetipi. Ma tra archetipo e stereotipo c’è una differenza, perché lo stereotipo tende a diventare cliché. E qui entra in campo l’interpretazione e la lettura registica.
Una volta le tragedie greche venivano portate in scena per giorni. Era un rituale al quale il pubblico prendeva parte. Oggi assistiamo a un rituale invertito: è la rappresentazione che entra nelle case, quotidianamente, sotto forma di soap-opera o sceneggiati…
Non credo che la gente non vada più a teatro e che non ci sia più quel rito. Credo che sia stato modificato dal mercato. Che il pubblico si rivolga meno al teatro, è una scelta indotta. Perché ci sono molte altre forme di rappresentazione che sono più a portata di mano, più pubblicizzate, meno costose. Meno complesse nella fruizione. In maniera semplicistica. Io paragono tutto ciò che è arricchimento dell’animo, per cui usiamo la parola cultura, ad un nutrimento di cui il nostro corpo ha bisogno. C’è più popolazione che mangia cibi spazzatura piuttosto che cibi sani. Il teatro non viene pubblicizzato, ha spazi sempre più ristretti. Sui giornali sta sparendo, non se ne parla. In televisione non esiste. Viene spesso maltrattato. Sono profondamente dispiaciuta di tutto questo perché vedo, dietro, una volontà. Le persone che vengono a teatro sono assetatissime, escono arricchite, nutrite, entusiaste. Ovviamente dipende da cosa vedono. Ma non è vero che la gente non voglia più andare a teatro.
Lei si è formata alla Silvio D’Amico. Ha una preparazione importante alle spalle. Nella sua carriera ha attraversato varie forme di rappresentazione dal teatro greco al cinema alla televisione. Non pensa che molto dipenda anche dalla qualità interpretativa degli attori, che deve passare per una formazione? Forse la recitazione improvvisata allontana?
Concordo, ma la preparazione deve essere di tutti. In altri Paesi si inizia a conoscere il teatro durante l’infanzia. A volte quando qui nelle scuole si fanno corsi di teatro, sono fatti male. Vedo rielaborazioni di musical disneyani, rappresentazioni semplici. Se la scuola pubblica si occupasse di teatro e allenasse i bambini all’arte del teatro, non per diventare attori ma anche per diventare spettatori, questo non accadrebbe. Assisteremmo a una selezione automatica: gli spettacoli terribili non esisterebbero o si ridurrebbero drasticamente.
Magari anche ripristinando le matinée invece di mandare le scolaresche a vedere rappresentazioni improbabili…
Questo purtroppo accade. Ma il fatto che ci siano numerose scuole di teatro significa che le nuove generazioni hanno sete di tutto ciò. Oggi lo spirito narcisista, tipico dell’adolescenza, è supportato dalle nuove tecnologie. I ragazzi con i telefonini andrebbero supportati per diventare i protagonisti delle proprie rappresentazioni. C’è una richiesta forte e questo è un sintomo che dovremmo intercettare con delle iniziative che accolgano questa richiesta. Quindi educare, in realtà,significa mettersi in scena, stare davanti ad un obiettivo, sul palcoscenico.
In “Lezione da Sarah”, affronta le aspirazioni e i sogni di Marie, una giovane aspirante attrice, pronta a mettere tutto in gioco pur dimostrare di poter stare su quel palcoscenico. Lo spettacolo parla un po’ di questo…
Sì, parla un po’ di tutto ciò. Sono molto emozionata nel riprenderlo. Avevamo debuttato al Todi Festival e ai Giardini della Filarmonica. Poi il lockdown. Riprendiamo dopo due anni di arresto. Questo spettacolo in particolare, è un’ode al teatro e al mestiere dell’attore.
Interpreto idealmente Sara Bernard, un’attrice con grande esperienza che dà lezioni ad una giovane che vuole intraprendere il mestiere dell’attore, allenandoci su vari personaggi, recitando pezzi dall’Amleto, dalla Fedra. È come una matrioska.
Può essere interessante proprio per i ragazzi che hanno delle aspirazioni attoriali, ma anche per quel pubblico che ama da sempre il teatro, perché è come guardare un po’ dietro le quinte.
Ha tre figli. In Baby ha interpretato una madre pariolina di una figlia prostituta. Come è stato calarsi in quel ruolo?
È stato molto amaro. Il mio personaggio in particolare, poi, nell’arco dei tre episodi, credo sia il peggiore di tutti. Anche dei malviventi, dei clienti delle due di prostitute. La madre che interpreto, alla fine risulta veramente la persona più colpevole. E questo mi ha creato un’amarezza che è andata crescendo. È un personaggio che è sceso sempre più nel baratro dell’egocentrismo e dell’incomunicabilità con sua figlia. È un ruolo che mi ha toccata. Ma è il nostro mestiere e ci dobbiamo spesso calare in animi diversi dal nostro. Anzi più sono distante dal personaggio, meglio riesco a disegnarlo.
Alcune attrici lamentano la difficoltà di trovare ruoli dopo i cinquant’anni. Lei ha fatto di tutto indipendentemente anche dalla sua età…
Sì! Mi hanno fatto diventare nonna a trent’anni, ho fatto la madre di Argentero. A Teatro non ne parliamo: madre di attori anche più grandi di me. Questo è un aspetto che mi piace moltissimo del mio mestiere. Al teatro e al cinema l’età non esiste.
E la classificazione in attori comici, drammatici…
Se uno vuole relegarsi in un’etichetta, può farlo, ma in genere sono gli altri che te la attaccano, come dicevamo all’inizio. Io ho fatto fatica a levarmela di dosso. Soprattutto per quanto riguarda cinema e televisione, sono considerata un’attrice drammatica, triste, che si cimenta in ruoli un po’ arrovellati. Quando invece mi è stato consentito di toccare anche altre corde, per me si è aperto un mondo. Sarò sempre grata a Massimo Ghini che mi ha scelta per la commedia Un’ora di tranquillità, di Florian Zeller, che è stato un successo per tre stagioni.