di Alessia de Antoniis
Da poco tornata dalla Mostra del Cinema di Venezia, nelle sale con Le Sorelle Macaluso, e, dal 2 al 4 ottobre a Narni per il Narni Città teatro. Lei è Emma Dante, una donna che parla di donne, senza veli, senza menzogne, senza falsi pudori. Una donna potente, come il suo teatro, come il suo cinema.
Le Sorelle Macaluso parla di vita. La morte, che arriva tre volte, è solo un momento della vita che scorre. Niente fantasmi, ma vite vere che continuano ad esistere su un piani paralleli, nel ricordo vivo di chi “resta qui”.
Una delle scene più belle, sul finire del film, è la “foto di gruppo” delle quattro sorelle al capezzale della quinta appena morta: ognuna è ferma alla sua età. Eppure sono tutte là, tutte insieme, legate da rapporti che trascendono lo spazio e il tempo. È un film che parla il linguaggio del dolore, della rabbia, della collera, della paura, del rancore, ma che parla anche di pace. Non quella eterna, che arriva dopo la morte, bensì quella con se stessi, con la propria vita, dopo aver dato un senso a quello che, mentre accadeva, non eravamo in grado di comprendere. E quella tensione che ci ha accompagnati per tutto il film, si scioglie nella luce delle scene finali.
Nonostante le difficoltà, le cinque sorelle restano insieme. Le donne vincono se sono solidali?
Certo! Se sono insieme sono più forti, sono sorelle!
Ha debuttato a gennaio al Piccolo di Milano con Misericordia, che sarà a Roma in primavera. Lo ha definito “una favola contemporanea”. Per amore, tre donne crescono un figlio non loro, nato da una violenza, nonostante le loro difficoltà e la disabilità del bambino. È un suo modo per raccontare la maternità in un’Italia dove, ancora oggi, molte donne si sentono sminuite per la mancanza di figli?
Le tre madri sono tre prostitute, tre donne che non possono inizialmente definirsi madri perché sono tutt’altro che materne. Sono tre donne forti, coraggiose, tre guerriere, che vivono una vita di stenti. Povere, vivono tutte e tre nello stesso appartamento, che è un letamaio. Nonostante la loro condizione di estremo disagio, crescono con amore questo ragazzino. Lo spettacolo centra l’attenzione sull’idea di famiglia non tradizionale e, tuttavia, riuscita. Senza padre, senza la madre naturale, viene accudito e amato come se fosse figlio. Perché si può vivere anche in una famiglia con tre mamme. Lo spettacolo vuole dire questo.
Ci racconterebbe della sua maternità?
Sono come tutte le donne che non hanno al centro della loro vita stare dietro ai figli e desiderare che siano competitivi nella società, che siano al primo posto. Il mio essere madre non è questo. Io ho un figlio speciale, un figlio che non è come tutti gli altri bambini: viene da una situazione molto difficile, da un orfanotrofio di San Pietroburgo, dove non sono dei luoghi come le nostre case famiglia. Il mio essere madre è legato al profondo desiderio di salvare questo bambino e fargli passare una vita serena. Non sono una madre che risponde a degli stereotipi di madre. Non sono sempre con lui, visto anche il lavoro che faccio, e non vivo soltanto per lui. Lo amo profondamente, ma siamo due identità: cerco di spiegargli che io sono una persona e lui un’altra e che ognuno di noi può vedere la vita in modo diverso. Cerco la dialettica più che una maternità soffocante. Le famiglie possono essere di tutti i colori e in questo sta la loro bellezza.
Al Socrate, un liceo classico di Roma, la vicepreside sconsiglia la minigonna alle ragazze perché “ai professori può cadere l’occhio”. In Francia, al ministro dell’istruzione le ragazze hanno risposto “invece di coprire noi educate i vostri figli”. Sempre in Francia #Balancetontiktoker accende i riflettori sulla riproduzione di atti sessuali in video da parte di minori. È una società che chiede il rispetto delle libertà personali o è un caos dove c’è il rischio di un rigurgito oscurantista? E perché dei minori sentono un bisogno così forte di mostrare il proprio corpo come oggetto sessuale?
A me sembra assurdo che si dica ad una ragazzina che non si può mettere la minigonna sennò ai professori cade l’occhio, mi sembra una cosa del medioevo. Penso che i giovani abbiano sempre avuto questa guerra degli ormoni, questa necessità di mostrare il proprio corpo, essere sensuali, sedurre: è una cosa che esiste da quando esiste l’essere umano. Il problema è che sono cambiati i mezzi: ci sembra più scandaloso a causa della diffusione di immagini che passa attraverso i telefonini, i social. Ma sono atteggiamenti che esistono da sempre, perché fa parte della natura. Non possiamo reprimerla. Ai miei tempi c’era la storia che se ti toccavi diventavi cieco: era tremendo. Sinceramente, non lo vivrei come un problema.
È una donna che parla di donne, spesso in modo crudo. Parla di prostituzione, di disabilità, di violenza sulle donne, di degrado sociale, di donne condannate a lottare. I suoi sono personaggi tragici. Si parla troppo spesso di crisi del teatro riferendosi alla mancanza di spettatori. Non è che la crisi sta nella confusione del teatro sui suoi scopi e nella mancanza di assunzione di responsabilità?
Si ha paura di scrivere storie più sperimentali, sperimentare nuovi linguaggi, perché si teme di perdere il pubblico. Secondo me non si deve avere paura di perdere il pubblico, ma affrontarlo con maturità. Forse c’è meno coraggio di prima ad affrontare temi scomodi che obbligano a riflettere, ma il teatro deve far riflettere. Se intrattiene e non fa riflettere, per me è un teatro inutile.
Giorni fa un post su Facebook del Comune di Ferrara, poi rimosso, diceva: “Se sei ubriaca, sei in parte responsabile dello stupro”. Nello stupro delle due ragazzine inglesi a Matera, sono indagati anche due trapper conosciuti per i loro testi sessisti e fortemente denigratori nei confronti delle donne. Possiamo dire “sono solo canzonette” o dobbiamo capire che le parole hanno un peso e assumerci responsabilità?
La responsabilità non è dei giovani, ma del tipo di società in cui viviamo: se gli adulti, che dovrebbero dare le linee guida, parlano così e dicono se ti metti la minigonna cade l’occhio o, come diceva Dario Fo, se sbatacchi le palpebre in qualche maniera stai invitando il tuo stupratore a stuprarti, oppure se sei ubriaca… cosa fai? Impedisci al ragazzino o alla ragazzina di prendersi una sbornia sennò rischia di essere violentata? Non si può vivere in una società in cui c’è questo tipo di informazione e di guida. È allucinante. Il problema non è dei giovani. Poi, perché l’indice è sempre puntato sulla donna? Perché è sempre stata l’essere più fragile nella società e continua ad esserlo e, se c’è un colpevole, è la donna: che attira, che seduce. Tutte sciocchezze!
Di lei dicono che sia una donna difficile ma che riesce a tirare fuori il meglio dagli attori che dirige. Il suo segreto?
Sono esigente. Questo forse è quello che passa per essere difficile. È una cosa completamente diversa. Si può essere esigenti nella semplicità. Io cerco le cose semplici, ma devono essere vere, devono toccare corde profonde, emotive e, quando gli attori fingono e fanno i furbi, me ne accorgo e mi arrabbio, perché secondo me il palcoscenico, o il set, deve essere il luogo dove tutte le sovrastrutture della tua educazione devono venir meno per far posto alla verità, anche se scomoda. Ma per ottenere risultati, ci deve essere un rapporto sincero. È tutto quello che chiedo. Se questo viene poi spacciato per difficile o per isterico, non è un problema mio.
Progetti futuri?
Vari. Non è mai uno solo. Questo poi è un anno difficile. Ecco, lui sì che è un anno difficile, neanche un anno esigente: è un anno che ci sta sballottando come naufraghi in un mare in tempesta, senza mai capire dov’è l’approdo. Facciamo progetti, ma in realtà sappiamo che forse non possiamo neanche portarli a termine. Faccio finta di provare degli spettacoli che però non so quando andranno in scena.
Intanto venerdì 2 ottobre sono a Narni con Acquasanta: è un monologo, uno spettacolo che ha circa dieci anni, interpretato da mio marito, Carmine Maringola. È la storia di un mozzo che viene abbandonato a riva perché si innamora del mare e, a bordo, la sua figura non è più utile a nessuno. Il suo innamoramento è una forma di sentimentalismo che dà fastidio ai marinai e al comandante. Lo abbandonano sulla terra ferma e lui, per ribellione, si costruisce una prua, la inchioda sulla terra ferma e fa finta di continuare a navigare.
È uno spettacolo che parla un po’ dei giorni nostri, che parla di qualcuno, di noi, che siamo ancorati, che non stiamo andando da nessuna parte ma continuiamo a sognare di navigare.