I ricchi, i poveri e la libertà che non si compra: un monologo meraviglioso | Giornale dello Spettacolo
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I ricchi, i poveri e la libertà che non si compra: un monologo meraviglioso

Un vecchio testo di Ascanio Celestini, da leggere e rileggere. Mai così forte, così attule

I ricchi, i poveri e la libertà che non si compra: un monologo meraviglioso
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30 Luglio 2018 - 11.12


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E’ un vecchio testo di Ascanio Celestini, ma così attuale, così bello e potente che rilanciamo  volentieri questo strepitoso  monologo. Per riflettere assieme. 

 

I poveri erano così poveri che presero
la loro fame, la misero in bottiglia e
andarono a vendersela.
Se la comprarono i ricchi.
I ricchi che nella vita avevano mangiato
tutto dal caviale ripieno all’ossobucodiculodicane
allo spiedo e volevano
conoscere anche il sapore della fame
dei miseri.
Per un po’ quei poveri tirarono avanti,
ma poi tornarono a essere poveri come
prima.
Allora imbottigliarono la loro sete e
andarono a vendersela.
Se la comprarono i ricchi che nella
vita avevano bevuto tutto, dal Brunello
al Tavernello ma non avevano ancora
assaggiato la sete dei miseri.
Ancora un po’ i poveri tirarono avanti,
ma poco tempo più tardi tornarono
nella povertà.
Allora presero la loro rabbia lamisero
in bottiglia e andarono a vendersela.
Se la comprarono i ricchi.
I ricchi che nella vita si erano sentiti
indispettiti, che avevano avuto un po’
di rodimento di culo, ma la rabbia vera
non l’avevano mai provata. Così se
la comprarono dai poveri che ce n’avevano
tanta.
I poveri tirarono avanti, ma poi vendettero
anche il loro pudore, la loro
vergogna, il loro dolore. Imbottigliarono
la commozione e l’insubordinazione,
la violenza e il riscatto, la rivolta e
la pietà.
Col tempo le cantine dei ricchi si
riempirono di bottiglie. Accanto ai
grandi vini d’annata collezionavano la
fame dei sanculotti della rivoluzione e
la rabbia dei braccianti che occupavano
le terre del Meridione.
Tra gli spumanti e gli champagne
trovavano posto la pazzia dei pellagrosi
nelle campagne o l’orgoglio dell’aristocrazia
operaia che aveva difeso le
fabbriche dai nazisti e s’era guadagnata
i diritti nelle lotte sindacali. Tra novelli
e i passiti c’era il disgusto dei precari
e dei senza casa o la determinazione
dei Zapatisti che marciarono verso
Città del Messico col passamontagna.
Dopo qualche generazione i poveri
s’erano venduti tutto.
I poveri diventarono così poveri che
presero la loro povertà, la misero in
bottiglia e andarono a vendersela.
Se la comprarono i ricchi che volevano
essere così tanto ricchi da possedere
anche la miseria dei miseri.
Quando i poveri restarono senza
niente si armarono.
E non di coltello e forchetta, ma di
pistole e fucili perché la rivoluzione
non è un pranzo di gala, la rivoluzione
è un atto di violenza.
Marciarono verso il palazzo.
Però quando arrivarono sotto il balcone
del podestà si fermarono e rimasero
zitti. Perché senza la rabbia e la fame,
senza l’orgoglio e il disgusto, senza
cultura e coscienza di classe non si
fa la rivoluzione.
Così il podestà scese in cantina, tornò
con una bottiglia e la riconsegnò al
popolo. C’era imbottigliata la libertà
che avevano conquistato i loro nonni,
ma che i padri s’erano già venduta da
un pezzo. Potevano farci un inno o un
partito, un circolo o una bandiera.
La stapparono, ma non riuscirono a
farci niente.
Perché la libertà da sola non serve.
Allora il podestà si cercò in tasca e
trovò una scatola di caramelle alla
menta. La consegnò al popolo. E da
quel momento i poveri furono liberi.
Liberi di succhiare mentine.

 

 

 

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