di Margherita Sanna
Sale sul palco dopo essersi fatto attendere perché non si era reso conto che fosse il suo turno. Un pantalone di qualche taglia in più, una giacca che toglierà nel bel mezzo del suo reading ed un’anonima maglietta a tinta unica, semplice e familiare: è questo il Luigi Lo Cascio che sale sul palcoscenico del Minimax del Teatro Massimo di Cagliari. Lontano l’attore conosciuto al grande pubblico per i capolavori “La meglio gioventù” e “I cento passi”, avanti l’uomo. “Siamo fra amici” dice, mentre appoggia l’acqua e le sue medicine sul tavolo, strappa sorrisi e applausi nel suo immediato creare un contatto fra lui e la platea, diretto fino all’imbarazzante come quando commenta un anonimo spettatore che ha sbuffato. “Sul cuor della terra” è il titolo del suo reading per questo Oscena Festival; un viaggio fra i poeti siciliani del 900’, ma senza pretese cattedratiche o di esaustività, piuttosto un percorso fra i poeti letti da lui e amati. È un momento dal sapore atavico e spirituale, come accade quando si ha a che fare con le parole che frugano nelle insenature dell’anima. È un momento in cui “Noi superstiti ci raccogliamo a raccontarci le poesie”, tanto che Luigi Lo Cascio, ricordando quando durante la sua giovinezza ci si alzava in piedi in pizzeria a declamare qualche poesia, mentre oggi a stento si solleva lo sguardo dal cellulare, afferma con ironica tristezza “Stiamo facendo una cosa da sopravvissuti”. E così ci si lascia trascinare da Stesicoro, letto nella traduzione di Salvatore Quasimodo, Pirandello, Quasimodo stesso (che ci darà anche la poesia “Sardegna”), Gesualdo Bufalino (su cui fin dall’inizio si soffermerà per raccontarci come fu scoperto e poi pubblicato), Empedocle, che poi verrà collegato al poeta Giuseppe Bonaviri, uomo di umili origini, narratore della gioiosità di perdersi. Ma quando si arriverà alla lettura dei poeti contemporanei in lingua siciliana Luigi Lo Cascio cambierà sul palco, come se l’utilizzo della lingua natia gli conferisse un carattere di autenticità maggiore. Da Salvo Basso fino ad arrivare al fratello, Luigi Lo Cascio leggerà in lingua in maniera trascinante e divertente anche, nel suo caratterizzare così bene l’io poetico. Tanti poeti, accomunati tutti dall’attitudine verso i contrasti poetici, formali, con quella capacità di saper convogliare il caos; saper partorire dalla lacerante inquietudine un percorso umano e poetico, che non sia solo personale, ma parli una lingua universale. Luigi Lo Cascio concluderà il suo reading con il più famoso poeta siciliano, Salvatore Quasimodo, l’uomo che alla domanda sul perché Sardegna e Sicilia avessero due Premi Nobel per la letteratura rispose: “Si vede che la poesia ama le terre che galleggiano sul mare”. Di lui leggerà la poesia che scrisse per i novant’anni del padre, “Al padre” nel quale ricorda la grande forza e il coraggio del padre e di tutti quelli che con lui lavoravano fra le macerie del terremoto e maremoto, che si abbatté su Messina il 28 dicembre 1908, quando lui ancora aveva solo 7 anni. Venerdì, ascoltare quelle parole avendo ancora dentro l’eco delle notizie sul maremoto di Genova, è stato come legarsi a tutti gli angeli del fango di ogni epoca e latitudine.
Al Padredi Salvatore Quasimodo
Dove sull’acque viola
era Messina, tra fili spezzati
e macerie tu vai lungo binari
e scambi col tuo berretto di gallo
isolano. Il terremoto ribolle
da due giorni, è dicembre d’uragani
e mare avvelenato. Le nostre notti cadono
nei carri merci e noi bestiame infantile
contiamo sogni polverosi con i morti
sfondati dai ferri, mordendo mandorle
e mele dissecate a ghirlanda. La scienza
del dolore mise verità e lame
nei giochi dei bassopiani di malaria
gialla e terzana gonfia di fango.
La tua pazienza
triste, delicata, ci rubò la paura,
fu lezione di giorni uniti alla morte
tradita, al vilipendio dei ladroni
presi fra i rottami e giustiziati al buio
dalla fucileria degli sbarchi, un conto
di numeri bassi che tornava esatto
concentrico, un bilancio di vita futura.
Il tuo berretto di sole andava su e giù
nel poco spazio che sempre ti hanno dato.
Anche a me misurarono ogni cosa,
e ho portato il tuo nome
un po’ più in là dell’odio e dell’invidia.
Quel rosso del tuo capo era una mitria,
una corona con le ali d’aquila.
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.