di Marco Buttafuoco
Chiedo a Gianluigi Trovesi che sensazioni dà suonare in un teatro come il Farnese di Parma. Un teatro in legno del XVII secolo, che trasmette allo stesso tempo un senso d’imponenza e di leggerezza. Non rinuncia al suo consueto humor: “Qui ha suonato Monteverdi, che presentò un’opera purtroppo andata perduta, e da Monteverdi comincia il percorso di una delle manifestazioni più importanti e radicate della musica italiana: l’opera, il melodramma. È emozionante; infatti, la direzione artistica di Parma Jazz Frontiere, che mi ha invitato a inaugurare la venticinquesima edizione della rassegna, ha cercato, dato il grande onore che concedeva invitandomi a suonare qui, di pagare di meno me e l’Orchestra Salmeggia che mi accompagnerà stasera”. Trovesi, suonatore di sax alto e clarinetti vari, è un pilastro della storia del jazz italiano. Ha praticato, suonando anche a lungo nell’Orchestra della Rai, ogni stile della musica afro americana, dal dixieland al free jazz radicale. Ma ha sempre avuto nel cuore la musica italiana: le danze, colte e popolari della tradizione, le bande di paese, l’opera lirica. Nella sua lunga produzione discografica e nei suoi concerti ha sempre reso omaggio a jazzisti incendiari e innovativi come Eric Dolphy, ma ha anche utilizzato come materiale principale saltarelli, frottole, ciaccone, arie napoletane, ritmi caraibici.
“Non so se la mia è una dimensione postmoderna. Se me lo dite sarà pur vero, ma non m’interessa molto. Io attingo a questi vasti giacimenti musicali che ci offre l’Italia perché amo tanto questa musica, e mi diverto a suonarla e reinterpretarla. So benissimo che un concerto come quello a Parma lascerà freddo qualche jazzofilo purista, ma il jazz altro non è che un grande fiume. È nato da una sorgente e lungo la strada ha disegnato paesaggi nuovi, si è modificato, si è mischiato con l’acqua degli affluenti. Quando arriva alla foce, al delta, tutto è diverso. E un delta è a sua volta un paesaggio mutevole, indefinito. Sono fedele alla pratica dell’improvvisazione e alla libertà che mi dà il jazz, ma dentro di me risuonano le musiche italiane. A standard come Lover Man o Body and Soul, che pure mi piacciono molto, preferisco arie mediterranee, danze italiane o europee. Ho inciso da poco, spero di pubblicare il cd, un lavoro con un organista bergamasco, Fabio Piazzalunga, su musiche del ‘500. Questa ricerca, tuttavia, non mi fa sentire di meno un musicista jazz”.
Corrado Guarino, direttore della piccola orchestra d’archi Enea Salmeggia con cui il clarinettista suona da anni, rileva un punto importante: ”Quello che suona Gianluigi non è un collage, un abito di Arlecchino (Trovesi è nato e vive nella bergamasca nda), una sovrapposizione forzata. È un flusso libero di pratiche, culture ed emozioni musicali”.
Il concerto inizia quindi con variazioni sulla maestosa Toccata che fa da prologo dall’Orfeo di Monteverdi. Prosegue poi con una serie di brani che, oltre al piacere dell’ascolto, mix di raffinatezza e ironia, danno anche lo spunto per una serie di riflessioni culturali. L’ensemble, nel quale spicca anche il percussionista jazz Fulvio Maras, con i suoi accenti “altri” rispetto al panorama sonoro dell’orchestra, propone come secondo brano una ciaccona, scritta da un musicista di Luzzara del XVII secolo, Maurizio Cazzati. La ciaccona è una danza spagnola, ma potrebbe anche arrivare da Cuba. Segue una follia, altra danza basata su un giro armonico antico (un archetipo, la definisce Trovesi presentandola) proveniente dal Portogallo (o dalla musica araba). Da sempre quindi le culture musicali si sono incontrate e incrociate, mescolate, al di là dei confini geografici o delle distinzioni fra accademia e folclore. Si finisce, giustamente, con arie verdiane celebri, da Traviata: emozioni archetipiche amplificate dall’architettura lignea del Farnese.
Nella chiacchierata precedente al concerto ho chiesto a Trovesi, nato e sempre vissuto a Nembro, il paese della bergamasca che è stato uno dei centri più colpiti dalla pandemia, qualche impressione su quei giorni: “ Ricordo il silenzio profondo e il fruscio delle ruote delle biciclette sull’asfalto. Un suono che sentivo spesso nella mia infanzia, quando c’erano pochissime automobili in circolazione. Ricordo i colloqui che capitavano le rare volte in cui uscivo, quando mi fermavo a parlare, a distanza, con persone che prima salutavo solo con un cenno del capo. Dicevano che tutto sarebbe migliorato, dopo quella tragedia. Oggi non vedo motivi per essere più ottimista. Le nostre attività economiche soffrono ancora e mi sembra che la lezione che ci hanno impartito quei giorni sia già dimenticata.”.