di Antonio Salvati
Uno dei tratti caratteristici delle canzoni di Francesco Guccini è l’inesorabile e indifferente scorrere del tempo. L’approccio, potremmo dire, crepuscolare con cui il cantautore emiliano esplora il quotidiano, rimarcando la natura effimera delle cose e il ricordo come fragile appiglio al passato e ancor più fragile ma irrinunciabile ponte verso il futuro, fa di noi appassionati incalliti di Guccini – sia nella veste di cantante che di scrittore – dei malinconici, ossia persone in preda a questa sorta di stato d’animo che, talvolta, si trasforma in una forma di convalescenza o di purificazione. Ossia, una situazione di quasi-tristezza che spesso ci aiuta a mettere in ordine le nostre emozioni, individuando nello stesso tempo ciò che non troviamo perfetto nel presente per poi ripartire per cambiare e creare qualcosa di positivo. Molti – beati loro – trasformano la malinconia, facendone un’opportunità creativa: attraverso l’espressione artistica, magari con un dipinto. Oppure con una canzone che metta in parole e in musica i nostri sentimenti. Come del resto hanno fatto i principali talenti del panorama musicale italiano degli ultimi cinquant’anni, e tra questi proprio Francesco Guccini che ha appena vinto il premio “Città della Pieve” nel concorso riservato ai di Pieve Santo Stefano nell’aretino:in occasione dei suoi 80 anni – festeggiati lo scorso 14 giugno – ci ha regalato un’autobiografia intitolata Non so che viso avesse. Quasi un’autobiografia (Giunti 2020, pp. 324, 19,00 euro), scritta insieme a Alberto Bertone per un’analisi dei tratti significativi delle sue canzoni insieme ad una bibliografia degli ultimi libri, firmati in proprio o in coppia col giallista Loriano Macchiavelli.
Come dice Guccini stesso, scrivere una autobiografia è forse impossibile, «troppe vicende sembrano svuotate di senso e mancare di contenuti, troppi protagonisti appaiono ormai come un pallido fantasma, privi di quello che erano stati veramente nell’essenza della loro vita quotidiana. Troppi fatti sarebbero raccontati in maniera fugace e superficiale». Il suo libro riesce, comunque, a consegnarci il senso di una vita intera animata dalla fiducia nelle canzoni (nelle sue molteplici accezioni), come modalità non solo di conoscenza e di resistenza.
Pur premettendo che molti ricordi possono sfuggire alla propria memoria, Guccini inizia i suoi cenni autobiografici partendo – com’era ovvio – dalla sua infanzia vissuta in un mulino sugli Appennini: «questa casa, per me bambino, era il centro di un mondo fantastico: popolato di persone, sul fiume, con i boschi attorno e gli echi terribili ma abbastanza lontani della guerra, perché qui la guerra – fortunatamente – non ha avuto grandi ripercussioni». I suoi nonni, mugnai, gli hanno insegnato il valore della fatica e del lavoro, la dignità di un uomo durante gli anni della guerra. Anni duri caratterizzati dalla fame, dalla carestia, dagli stenti e dal vivere le cose semplici come le più importanti, tra le quali «indossare una camicia bianca le domeniche d’estate, ‘spianare’, chi poteva, un vestito a Pasqua. Era importante corteggiare una sola ragazza, sposarla e vivere con lei tutta la vita». Un’epoca ormai passata fatta di valori autentici come lo stare insieme in allegria, vivere la famiglia con affetto profondo e sincero, raccontare storie. I suoi compaesani e parenti che vanno a macinare al mulino, i bagni nel fiume con gli amici e i primi amori. Anche ospitare un forestiero che chiede ristoro. Degno di nota l’episodio durante la guerra dell’irruzione dei soldati tedeschi e il coraggio di sua mamma nel fronteggiarli. Malgrado tutto, sostiene Guccini, «eravamo, tutto sommato, felici, ma forse non ce ne rendevamo conto».
Passano gli anni. Durante la giovinezza, spesso in affanno per cercare lavoro e per comprare le sigarette, con la famiglia si trasferisce in città e arriva anche il primo incarico in un giornale, alla Gazzetta dell’Emilia. Contemporaneamente arrivano le balere e il primo gruppo musicale. Le prime canzoni e i suoi incontri importanti con gli artisti. Le sue prime chitarre (tra cui due Martin) a cui resterà sempre molto legato. Inoltre, l’amore per la lettura che lo farà restare sveglio fino a tarda notte. In città la vita scorre diversamente. Nei boschi il tempo rallenta e poi le estati hanno un altro sapore tra l’aria buona e i prodotti genuini.
Nei primi anni settanta viene consacrato il suo successo di cantautore. Tanti lo etichettano come cantante politico, a causa di pochi testi come quello della Locomotiva. In realtà, non è un cantante dalla fede politica incrollabile: il suo universo tematico è più sfumato, affollato dai tanti forse, dai frequenti dubbi. dai numerosi quasi (come nel sottotitolo della sua autobiografia). Difficile fare un bilancio del Guccini cantautore ed elencare le canzoni più significative, ossia quelle che meglio hanno influenzato lo spirito del tempo o le nostre singole esistenze. In tante di esse, emerge forte la sensazione dell’evanescenza del tempo e dei presunti sensi ultimi («D’altra parte, lo vedi, scrivo ancora canzoni/ E pago la mia casa, pago le mie illusioni/ Fingo d’aver capito che vivere è incontrarsi/ Aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare/ bere, leggere, amare, grattarsi»), accompagnata dalla consapevolezza di avere sempre da apprendere essendo un «eterno studente/ Perché la materia di studio sarebbe infinita/ E soprattutto perché so di non sapere niente».
Guccini è certo un cantautore-scrittore colto, da taluni definito persino un Maestrone. Eppure le sue canzoni, seppur trattano argomenti delicati e drammatici, sono scritte con uno stile leggero e scorrevole, narrando la società e la storia con grande empatia, spesso strappando un sorriso. Guccini parte solitamente da un dato culturale alto, erudito e lo trasforma, rendendolo comunicabile. Talvolta lo volgarizza senza però banalizzarlo mai. Nelle sue canzoni incontriamo frequentemente citazioni o suggestioni di autori che appartengono alla letteratura antica o cólta, pur manifestando più volte una distanza dal mondo degli intellettuali: «gli arguti intellettuali trancian pezzi e manuali/ poi stremati fanno cure di cinismo/ Son pallidi nei visi e hanno deboli sorrisi/ solo se si parla di strutturalismo/ In fondo mi sono simpatici/ da quando ho incontrato Descartes/ Ma pensa se le canzonette/ me le recensisse Roland Barthes (…) Jorge Luis Borges mi ha promesso l’ altra notte/ di parlar personalmente col persiano/ Ma il cielo dei poeti è un po’ affollato in questi tempi/ forse avrò un posto da usciere o da scrivano/ Dovrò lucidare i suoi specchi/ trascriver quartine a Kayyam/ Ma un lauro da genio minore/ per me, sul suo onore… non mancherà» (Via Paolo Fabbri, 43).
Alcuni testi conservano una forte attualità. Auschwitz, in particolare, composta nel 1965 mentre l’Europa inizia a far proprio il peso storico, ma soprattutto simbolico della Shoah, la persecuzione mortale degli ebrei da parte dei nazifascisti. Il Diario di Anne Frank si era diffuso in Europa da pochi anni e Se questo è un uomo di Primo Levi era stato accolto da Einaudi solo nel ’58. La canzone riunisce in sintesi indignazione e desolazione, impulso narrativo e punto di vista dei “sommersi” non “salvati”, con la metafora impressionante “passato per il camino” (abituale frase di scherno che aguzzini e kapò pronunciavano nei confronti degli internati). L’arcivescovo di Bologna Zuppi, suo amico, ha ricordato che visitarono «il campo di concentramento di Auschwitz, insieme ai ragazzi di una scuola media della tua cara montagna. Tanti hanno imparato a conoscere quell’inferno sulla terra, proprio ascoltando e immaginando quel fumo che saliva lento e vedendo il volto di quel bambino morto insieme con altri cento. Forse ancora oggi resta aperta e più decisiva ancora la domanda: Ma come può un uomo uccidere un suo fratello?» e quando imparerà a vivere senza ammazzare? Proprio su questo è nata la nostra amicizia o meglio direi che si è ritrovata, come incontrando un vecchio amico che ha condiviso e regalato tante sue emozioni come solo la poesia e la musica sanno fare. Il segreto è molto semplice: la passione per l’umanità, quella che hai descritto nei suoi sogni, nelle sue tante storie concrete e in quelle immaginarie».
Ricordo che rimasi molto colpito la prima volta che ascoltai Noi non ci saremo, una vera e propria profezia apocalittica dettata dal terrore delle armi nucleari e ricca di immagini molto efficaci. Il verso che dà titolo al pezzo evoca la possibilità che l’umanità venga integralmente distrutta da un’eventuale catastrofe nucleare. Per noi giovani era una sorta di invito a resistere ai cliché della civiltà occidentale. Suggestiva l’immagine di “una sfera di fuoco” che s’intreccia a un metafisico “silenzio”, che copre lo spazio terreno e quello celeste “per mille secoli almeno”, sullo sfondo di una natura pronta a rinascere, ma priva di quel “noi” generazionale, individuale e collettivo.
Anch’io – come Zuppi – ho amato Il pensionato, un testo con tanta sensibilità verso la storia di un uomo altrimenti insignificante. «Mi avevano colpito parole – ha sostenuto recentemente l’arcivescovo bolognese, in un articolo in cui rivela la sua “preziosa l’amicizia” con Guccini – come il “piacere assurdo” per “la sua antica cortesia” che nel giovanilismo imperante, quando a vent’anni si è stupidi davvero, non trova certo attenzione e rispetto. Stabilivi un parallelo tra la nostra solitudine e la sua, come con quel frate di cui non sapevi “se fosse lui il disperato o il disperato son io”. In realtà tutti noi non abbiamo ancora capito, con la nostra cultura fasulla, dove sia la risposta».
Pensionato che altro non era che il signor Mignani, suo vicino di casa tanti anni addietro: quello che gli raccontò la vera storia del ferroviere, protagonista della Locomotiva. Mignani era un vecchio socialista che conosceva bene la storia di Rigosi, il macchinista della canzone. “Non so che viso avesse… ”, era come molti ricordano la prima strofa della canzone che prosegue con “Conosco l’epoca dei fatti, qual era il suo mestiere…”. Oggi Guccini ci avverte che l’espressione “gli eroi son tutti giovani e belli” dovrebbe essere intesa «in senso ironico, antiretorico, anche se la canzone ha un andamento volutamente retorico, come nelle canzoni». Grazie Francesco e tanti auguri.