Little Richard è morto: un padre del rock'n'roll non suona più il piano | Giornale dello Spettacolo
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Little Richard è morto: un padre del rock'n'roll non suona più il piano

Autore di canzoni come "Tutti frutti" e "Lucille", ha ispirato James Brown, Ray Charles, Prince e moltissimi altri. Ai conservatori americani non piaceva. Aveva 87 anni

Little Richard è morto: un padre del rock'n'roll non suona più il piano
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9 Maggio 2020 - 16.47


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Se n’è andato a 87 Little Richard, pietra miliare della prima generazione del rock’n’roll. Sue canzoni indimenticabili come Tutti frutti, Lucille, Good Golly Miss Molly, Long Tall Sally. Al mondo conservatore un personaggio così non è mai andato a genio.

Il musicista, pianista e compositore aveva avuto una vita travagliata e senza di lui il rock e il funky sarebbero diversi. Emerse negli anni ’50. Influenzò James Brown, Ray Charles, è stato un vero faro per il funky, per il rhythm and  blues, per autori geniali come Prince. Travolgente nel ritmo, dall’abbigliamento esuberante, si chiamava Richard Danny Penniman.

di Giuseppe Costigliola: un’altra stella è volata via

E così, è volata via un’altra stella. Come altro definire Richard Penniman, alias “Little Richard”, da molti considerato come l’inventore del rock ’n’ roll?
In realtà, quando incise il suo primo successo, “Tutti Frutti” (settembre 1955), altri musicisti avevano pavesato la strada di quel genere musicale: Chuck Berry, Fats Domino, Bo Diddley, lo stesso Elvis Presley era in giro da un annetto. Ma quel brano urlato con quella voce rauca e stridula, che, per quanto ripulito, parlava innegabilmente di sesso, esplose come un vulcano nella puritanissima America degli anni ’50. E fu subito chiaro che quel giovane che pestava il piano come un ossesso, che strillava i versi delle canzoni come se volesse salvarsi la vita, che affondava a piene mani nel gospel erotizzandolo con il rhythm and blues, stava creando qualcosa di nuovo. Come poi scrisse lo storico del rock Richie Unterberger, Richard “alzò ulteriormente il voltaggio del già potente R&B mascherandolo sotto le vesti di qualcosa di simile eppure diverso: il rock ’n’ roll”.

“Dinamico, del tutto disinibito, imprevedibile, selvaggio”: così era definito e percepito quel giovane nero di Macon, Georgia, così appariva al pubblico, che subito si divise: i reazionari, conservatori e tradizionalisti lo avrebbero volentieri bruciato vivo; i giovani già sensibilizzati dal nuovo trascinante genere musicale e dai valori che filtravano nella frigida America dei Fifties da movimenti come la beat generation, presero ad adorarlo.

Tutti Frutti” scalò le classifiche, e fu subito seguito da “Long Tall Sally” e da altri brani divenuti dei classici. Ma a rendere unico quel personaggio erano le esibizioni dal vivo, letteralmente elettrizzanti: balzava inaspettato sul palco come una tigre, saltava, urlava, si sgolava ad incitare la folla, martellava la povera tastiera, quasi mai seduto, dimenando il corpo come posseduto dal demone della musica: un delirio.
Poi, a rimarcarne l’assoluta originalità dagli altri rocker, il look: abiti bianchi e scintillanti, capelli gonfi come zucchero filato sul capo, viso pesantemente truccato, da star del cinema. In un ambiente particolarmente macho com’era il rock delle origini, quel ragazzo portava una ventata di gay culture assolutamente pionieristica. Anni dopo, amava dire che se Elvis era il re del rock ’n’ roll, lui era la regina. Anche fuori dalle scene faceva parlare di sé: si dichiarava gay, bisessuale, “onnisessuale”.

Difficile sottostimare l’influenza che Little Richard ha avuto come performer. Molti devono a lui la definizione della propria immagine, a cominciare da James Brown (che lo adorava, e che si servì di alcuni suoi musicisti) con la sua esuberanza artistica e canora, fino a Prince, la cui ambigua immagine sessuale è di chiara ispirazione richardiana. Presley registrò le sue canzoni, i Beatles ne adottarono il caratteristico “Wooo!” di gioia che saltava d’un’ottava (Paul McCatney dichiarò che la prima canzone che cantò in pubblico fu “Long Tall Sally”, poi incisa dai Beatles), Bob Dylan anelava a conoscerlo (come scrisse sull’annuario scolastico del suo liceo).

Ma il segno che lasciò fu soprattutto sociale: con le sue performance riuscì persino ad abbattere le barriere della segregazione razziale. A quel tempo, negli stati meridionali degli USA, i bianchi seguivano i concerti divisi dai neri, ma le cronache registrano che quando si esibiva Little Richard quasi sempre alla fine delle esibizioni gli spettatori erano tutti mischiati. Lui era consapevole del suo ruolo: “Ho sempre pensato che il rock ’n’ roll ha unito le razze. Io vengo dal Sud, dove ci sono barriere dappertutto, ed era meraviglioso vedere tutta quella gente che pensavamo ci odiasse mostrarci tutto quell’amore”. Ovviamente, i politici e le associazioni razziste cercavano di mettere a bando quel genere musicale proprio per quella ragione, e facevano pressione sulle stazioni radio per non trasmettere la musica dei neri.

Ma non furono loro a fermare quel tornado di Richard: fu lui stesso. Nel 1957, all’apice del successo, sull’orlo di un esaurimento nervoso, ad un concerto a Sidney durante la tournée australiana ebbe una sorta di epifania. Si alzò dal piano e disse: “Basta. Mi fermo qui. Chiudo qui con lo show business, è tempo di tornare a Dio”. Volò in America e riabbracciò la fede evangelista, con la quale era cresciuto, iniziò a studiare per diventare pastore, si tagliò i capelli, prese moglie e si mise a incidere musica gospel. Per tutta la vita fu combattuto dalla scelta di quei due palcoscenici così uguali, così diversi: il pulpito e il palco d’un’esibizione rock ’n’ roll.
Tornò sulle scene nel 1962, e nei due anni seguenti furoreggiò in Europa; i suoi concerti erano aperti, tra gli altri, dai Beatles e dai Rolling Stones, allora agli esordi. Furono anni di tour massacranti. Nel decennio seguente l’alcol e la cocaina gli fecero pagare dazio, e nel 1977 lasciò di nuovo il rock ’n’ roll: il pendolo oscillava di nuovo dalla parte di Dio. Si mise a vendere Bibbie e a incidere inni religiosi, e sparì dai riflettori.

Tornò a esibirsi metà degli anni ’80, ad apparire nei talk show, alle cerimonie dove si assegnavano premi: ormai era un mito. Con l’aiuto di parrucconi e dell’immancabile trucco, entrò nel nuovo millennio sempre saltando sui palcoscenici e pestando il pianoforte, riscuotendo immutato successo.
Ma l’età esigeva i suoi diritti: nel 2007 cominciò ad entrare in scena con un bastone, nel 2012 dovette interrompere un concerto: si scusò dicendo che non riusciva a respirare. L’anno dopo, in un’intervista a Rolling Stone annunciò il ritiro definitivo dalle scene: “Sono arrivato al capolinea”.
Nel frattempo, il suo nome compariva nella Rock & Roll Hall of Fame, nella Songwriters Hall of Fame e tra i premiati della National Academy of Recordings Arts and Sciences and the Rhythm and Blues Foundation, mentre il brano “Tutti Frutti” era stato aggiunto all’elenco delle incisioni di rilevanza storica e culturale nazionale della Library of Congress.
Finalmente libero dal corpo, adesso si starà esibendo davanti al suo Dio, tanto a lungo cercato ed amato.

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