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Pippo Pollina: “I cantautori italiani hanno ignorato la mafia”

Il cantautore siciliano vive a Zurigo ed è in realtà cittadino europeo: “Mahmood racconta la sua generazione in un’Italia dove la cultura è negletta”

Pippo Pollina: “I cantautori italiani hanno ignorato la mafia”
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11 Ottobre 2019 - 14.49


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Marco Buttafuoco

Ho incontrato Pippo Pollina, L’Europeo (così si chiama, significativamente, la sua pagina FB) a Milano, prima che partecipasse a un evento intitolato significativamente “La mia musica per l’Antimafia”, con la presenza di Nando Dalla Chiesa. Nel 2003 il cantautore siciliano (europeo?) tradusse e incise un pezzo di Leo Ferré, l’impervio La Mémoire Et La Mer, una lunga composizione apparentemente intraducibile in una lingua diversa dal francese. Una “canzone“ tanto personale che Ferré stesso la considerava la sua migliore e tanto da richiedere, per essere tradotta, la collaborazione della famiglia del grande chansonnier monegasco. Da questo ricordo lontano è in realtà iniziata una conversazione sul significato dell’Europa e del suo incrocio inesauribile di culture. Perché Pollina, è bene ricordarlo, è del tutto immerso in una dimensione continentale. Parla cinque lingue, oltre l’italiano (“nessuna benissimo sia chiaro, ma riesco a spiegarmi in tutte), i suoi figli e la sua compagna sono svizzeri tedeschi, il suo pubblico è ben radicato in tutta Europa.

“Essere europeo – dice Pippo Pollina – è stata una scelta, forse inconsapevole all’inizio, poi sempre più chiara. A ventitré anni (oggi ne ha cinquantasei, ndr) ho iniziato a viaggiare, a cercare altri orizzonti che non fossero quelli della mia Sicilia, tragica e ferita. Forse non mi sono più fermato, da allora. E in questi anni ho capito quanto sia potente la cultura europea, quale ricchezza ideale e politica ci sia in tutta la nostra stratificazione d’idee, filosofie, scienza, musica, letteratura. Questa energia che ha sempre interpretato e trasformato il mondo non può essere accantonata, pensata come un oggetto da museo. La politica ha messo invece in primo piano la dimensione economica, la moneta unica, rinunciando a elaborare un punto di vista critico europeo. L’euro doveva essere il punto di arrivo di un percorso tanto necessario quanto visionario, non la sua base. E oggi il progetto di Unione ansima. Ma io sono convinto che se un’Europa ci sarà, sarà quella delle culture: l’Europa della filosofia greca, di Shakespeare, Goethe, Beethoven, e perché no, anche quella dell’opera italiana, della canzone francese, di Leo Ferré. Io credo che noi operatori culturali abbiamo un compito importante nella formazione di un’identità europea, di una sintesi del nostro secolare scambio di esperienze; dobbiamo rivendicarlo, non essere a rimorchio d’una politica miope. Anzi, dire miope è poco. Mettere la cultura in secondo o terzo piano è stata, ed è, un’operazione politica precisa, non casuale”.

Oggi, da un punto di vista culturale (e musicale), i nostri giorni sembrano fluttuare fra una sorta di globalizzazione, che tende a omologare tutto, e una rivendicazione acritica di un’identità nazionale immutabile. Il caso Mahmood ne è l’esempio più espressivo.
Sono entrambi due pericoli. Le differenze sono necessarie, sono la vita stessa. La cifra della mia vicenda personale sta proprio nel vivere fra realtà diverse. Sono, appunto, un italiano che vive a Zurigo, Leo Ferré e canta anche in tedesco e svizzero tedesco. Credo sia giusto rivendicare una certa italianità dell’approccio alla melodia. C’è un approccio italiano al gusto musicale, ma non può diventare lo scopo della creatività. Ho cominciato la mia vicenda artistica negli Agricantus, usando la lingua siciliana. Era, però, un’operazione culturale, mediata. In realtà la mia lingua è l’italiano; mi piace cantare in italiano, mi è più facile esprimere pensieri in questa lingua. Ma nei miei dischi uso anche altri idiomi. La canzoni, quando funzionano bene, raccontano il mondo intorno a te, i punti di vista che cambiano: sono la storia sentimentale, come diceva Marcel Proust.
Non conoscevo la vicenda di Mahmood e delle reazioni politiche che ha suscitato. Mi sembra una storia surreale. Questo ragazzo racconta la sua Italia; avrà necessariamente un punto di vista diverso da quello delle generazioni precedenti. Il problema non è un cognome o uno stile, un modello d’italianità, ma invece, quello di una forma d’arte, la canzone italiana, che dall’inizio degli anni ottanta, non sa raccontare più niente di nuovo. Il problema è l’impoverimento culturale di un paese che della cultura e del gusto era agli occhi degli europei, un modello da imitare. L’Italia si è imbarbarita. Le televisioni commerciali e il loro boss ne hanno decretato il declino culturale. Oggi l’Italia è uno dei paesi più arretrati d’Europa, da questo punto di vista. Ha perso fascino e appeal, nei confronti del continente. E questa corsa verso il basso continua. D’altronde un’opinione pubblica che rivolge lo sguardo all’indietro, o verso il basso, è funzionale a una politica superficiale, che vive di slogan.

Lei, che collaborò con Pippo Fava e la sua rivista “ I Siciliani”, è qui Milano per questo incontro su musica e mafia. Le faccio una sola domanda. La canzone ha ancora un ruolo politico?
Quando racconta la realtà circostante, sì. E non è sempre necessario che a farlo sia un testo “militante”. È, comunque , molto espressivo che la questione mafia sia stata quasi del tutto assente dal panorama della canzone e d’autore. Certo, Ciccio Busacca o qualche cantastorie siciliano vi ha dedicato pezzi bellissimi, ma rimanendo nell’ambito della folk music, senza lasciare tracce nelle memoria collettiva. Nessun cantautore ha mai parlato, se ci si pensa bene, di questi argomenti: non De André, non Guccini e nemmeno Ivan Della Mea o gli artisti più politicizzati degli anni settanta. Ricordo uno spettacolo di Giorgio Gaber, a Palermo, alla fine degli anni 70, o già nei primi anni ottanta. Qualcuno dal pubblico gli fece notare questa assenza di ogni pur minimo accenno alla mafia. Lui rimase perplesso e, dopo averci pensato un po’ disse: ”Scusate. Io non ne so niente”. Per l’intellighenzia non siciliana erano, quelli della criminalità organizzata, concetti un po’astrusi, esotici. Molta sinistra, diciamocelo pure, pensava in termini messianici; costruiamo il socialismo e questa contraddizione si scioglierà, come per incanto. Oggi ci sono tanti giovani autori che si interessano anche a questi temi. Certo sono sconosciuti. Oggi in Italia tanti bravi colleghi sono ignorati dal pubblico. I media sono dominati dalla mediocrità, dall’ossessione del già detto. Paesi come la Germania, o la Svizzera, per dire delle realtà che conosco meglio, pongono molta attenzione nel valorizzare i talenti. La cultura non è negletta come nel nostro paese.

I suoi programmi per il futuro?
Intanto è appena uscito il secondo capitolo di Suden con Werner Schmidbauer e Martin Kalberer, oramai complici e amici irrinunciabili. Ho poi in programma un lungo tour europeo con tappe anche italiane (fra Milano, Torino, Verona, Firenze, Porto San Giorgio.) Poi un nuovo disco, più italiano, con molti musicisti siciliani. Il viaggio continua, insomma. È la mia maniera di stare in trincea.

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