Gli Zen Circus: «Pisa contro chi si sdraia sulle panchine ci ha fatto schifo» | Giornale dello Spettacolo
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Gli Zen Circus: «Pisa contro chi si sdraia sulle panchine ci ha fatto schifo»

Andrea Appino, voce e chitarra del gruppo rock toscano: "Siamo per il caos organizzato". E parla della "voglia di sicurezza in giro", dell'album "Vivi si muore", di rap, rock, Sanremo

Gli Zen Circus: «Pisa contro chi si sdraia sulle panchine ci ha fatto schifo»
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14 Marzo 2019 - 16.02


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di Stefano Miliani

«Noi siamo per il caos organizzato. E ci ha schifato che Pisa metta divieti come il potersi sdraiare sulle panchine». Lo dice Andrea Appino, voce e chitarre degli Zen Circus, rock band del circuito indipendente che non ha sfigurato a Sanremo, pur avendo avuto nel suo carnet brani più graffianti di “L’amore è una dittatura”, e che nei tardi anni ’90 irruppe con un allora clamoroso vaffanculo precedendo di gran lunga il profeta Beppe Grillo.
La band formata anche da Ufo al basso, Karim Qqru alla batteria, Maestro Pellegrini alla chitarra, tutti alle voci, ha un rock dove la rabbia e il disincanto sono ben canalizzati in sonorità energiche e tutt’altro che rassegnate e con le chitarre in primo piano. Il gruppo ha da poco sfornato “Vivi si muore – 1999-2019” (Woodworm Label/ La tempesta, distribuito da Artist First), raccolta su venti anni di canzoni e concerti sapendo che la dimensione live è quella a loro più congeniale. L’album ha 17 brani rimasterizzati e due inediti: il pezzo cantato al festivalone dell’Ariston e “La Festa”.

Con “Vivi si muore” avete fatto una cernita delle vostre canzoni. Dall’andate tutti affanculo a oggi cosa è cambiato in voi? Come attitudine e musicalmente?

L’idea è stata fare un Bignami della nostra musica perché siamo quelli dell’ultimo banco che non studiavano e il libretto con i riassunti ci ha salvato più di una volta la vita. Infatti volevo il disco a forma di Bignami, rosso, ma me l’hanno bocciato. Abbiamo cercato di stringere in due vinili e un cd, è stata una guerra interna scegliere le canzoni che rappresentano quel periodo o quell’album. Non è una playlist delle nostre preferite ma di quello che è successo dal vivo.

D’accordo, ma vi sentite diversi dal disco “Andate tutti affanculo”? Quella rabbia vive ancora?

Il cambiamento si vede in faccia, non possiamo esimerci dall’invecchiare, ma non è cambiato moltissimo. Quel “affanculo” ha preceduto il “vaffa” perché sentivamo spesso nei bar “andate a tutti affanculo”. Ma se mandi tutti a quel paese non mandi l’unica persona che dovresti mandare cioè te stesso: è qualunquismo. Quel disco partiva con una canzone su un egoista: stigmatizzavano peccati capitali dell’Italia e puntavamo il dito anche contro di noi. Quel disco canalizzava la rabbia degli anni precedenti, era figlio di lavori di merda, della mancanza totale di denaro. Ora siamo privilegiati.

Privilegiati perché fate il vostro mestiere? Nient’affatto, non lo siete.

Dopo lavori di merda per una vita ho la fortuna di cantare la propria vita. La rabbia vomitata in quel disco oggi è calmierata in maniera diversa: allora era di un ventenne, oggi parla un quarantenne e solo che sai cosa ti sta sulle palle: non è minore, la rabbia, è incanalata in cose più interessanti. A 28 anni mi sarei sentito offeso se sentivo allora questo discorso. Oggi analizzo con più calma cosa scrivo: posso metterci una settimana o una notte per scrivere una canzone.

Venite da Pisa, una città a guida centro destra che con un’ordinanza a ottobre ha vietato di sedersi per terra o di sdraiarsi sulle panchine: è contro il degrado o contro alcune categorie di persone?

Lo so, ci ha schifato. Nessuno di noi abita più a Pisa, il problema non è solo lì. C’è un’enorme voglia di sicurezza, di poco casino di stare sotto a quello che si conosce. Invece noi siamo per il caos organizzato, cantiamo per ricordarci che “vivi si muore”, che è la canzone più urlata ai nostri concerti, mentre si può vivere da morti. Una città che ha paura e non vuole gente per strada fa venir voglia di urlare, ma da Pisa me lo aspettavo, finché ci sono i ragazzi che portano soldi all’università gli va bene.

Come sta il “rock indipendente italiano”, mettendolo tra virgolette? Da Vasco Brondi ai Tre allegri ragazzi morti a Brunori sas, avete un filo comune.

L’ho visto nascere e fiorire e dato per spacciato. Manco mi interessa lo stato di salute del “rock italiano indipendente”, penso più a momento per momento. Siamo stati degli outsider e, a prescindere da Sanremo, arriviamo da momento fantastico siamo molto contenti e lucidi. Anche Brondi, Brunori e gli Allegri ragazzi descrivono cose della mia vita. Dario Brunori è un fratello, lo chiamo quando ho problemi, gli Allegri ragazzi rimangono il mio gruppo italiano preferito, Vasco Brondi ha scritto testi incredibili e fa parte di me. Della nostra generazione sicuramente i nomi citati hanno raccolto un testimone e lo hanno passato alle nuove generazioni: oggi c’è l’hip hop, siamo, contenti di aver fatto da ponte e tra i giovani Achille Lauro è fighissimo.

Achille Lauro è tutt’altra storia rispetto a voi.

È stupendo, ci abbiamo chiacchierato tanto, ha rivoluzionato la trap, a Sanremo ha fatto un pezzo più rock che trap. Ci sentiamo collegati a questa scena, siamo come lo zio strano che viene alla cena di Natale con la chitarra.

Al festival Mahmood in “Soldi” cita il Ramadan e ha padre egiziano ed è italiano: voi come la vedete? Il presidente Rai Foa ha detto che vuole cambiare il regolamento sulla giuria dopo la vittoria di Mahmood mentre prima andava bene?

Ritengo folle solo pensarlo. Chi se ne frega da dove proviene? È straniero perché è sardo (lo dice ridendo, con ironia), mica perché è metà egiziano, è una follia strumentale, non la commentiamo nemmeno. La polemica è scoppiata dopo il tweet di Salvini? Lui si intende di qualsiasi cosa al mondo, anche di musica, non c’è argomento che non conosca. Propongo che Salvini come ministro degli Interni voti chi vince Sanremo così non rompe. Quanto a noi, siamo andati lì non per la competizione, in musica non esiste e da che mondo è mondo arrivare primo, secondo terzo non vuol dire niente.

Voi non cantate di voi stessi ma di una collettività.

Sì, l’idea è cercare una comunità. Come musicisti non dobbiamo risolvere i problemi di una nazione ma creiamo piccole utopie. L’utopia non esiste e non è realizzabile? Lo dicevano anche a Leonardo da Vinci sul volare o alle donne al voto. Cantare di utopie crea un mattoncino per costruire un’idea di comunità più profonda.

Sul web per la vostra musica vengono citati i Violent Femmes ma la vostra ruvidezza scarna rimanda anche a un rock tipo primi Talking Heads.

In “Villa inferno ” abbiamo collaborato con Jerry Harrison, il tastierista dei Talking, e “Punk Lullaby” è prodotto da Brian Ritchie dei Violent Femmes: è musica con cui siamo cresciuti.

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