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Marco Zaffaroni: così salirò in stile gitante sull'Everest

Tutto pronto per la spedizione in stile gitante verso la vetta dell'Everest, ore 22.30 si parte

Marco Zaffaroni: così salirò in stile gitante sull'Everest
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1 Aprile 2015 - 22.09


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Pronti via, proprio ora alle 22.30 Marco Zaffaroni con l’amico Roberto Boscato si stanno imbarcando sull’aereo che li porta a Kathmandu. Inizia la spedizione all’Everest di Zaffaroni e Boscato, in stile gitante.

Al posto delle valige, i bagagli sono “borsoni”, dentro scarpe leggere per il trekking di supervisione all’ospedale di Kalika che con la onlus Goccia e l’amico Mario Merelli ha voluto costruire per aiutare gli abitanti della regione nepalese del Dolpo. Scarpe più pesanti per l’avvicinamento al campo base dell’Everest a più di 5000 metri che sarà per i gitanti casa per quasi un mese. Poi scarponi più pesanti e d’alta quota per iniziare a “pestar neve” e passo dopo passo tentare di arrivare sulla cima della montagna più altra del mondo, avere il naso sopra gli 8848m dove l’aria è sottile e lo sguardo non trova alcun ostacolo.

Qualche domanda a Marco Zaffaroni, detto Zaffa, nel prepartenza di questa spedizione che verrà seguita in queste pagine nei prossimi due mesi circa.

Una spedizione per te che non sei un himalaysta professionista è una cosa impegnativa da preparare ma dici essere “una cosa che vuoi fare con tutto te stesso”. Cosa ti porta a trovare tante risorse per partire?

Non so esattamente darti una risposta. Ho iniziato ad andare in Himalaya perché un amico mi ha detto più d 15 anni fa mi ha detto: “Accompagnami che voglio provare a scendere questa montagna alta con lo snow board, poi ho iniziato ad andare con Mario Merelli, alpinista che stava tentando di salire tutti i 14 ottomila, avevo sempre una scusa fuori da me. Ora che Mario non c’è più e l’altro non ha più voglia di scendere una montagna alta con la tavola non ho più scuse, ma mi resta la spinta dentro, e so che quando arriva il momento per me di partire verso queste grandi montagne non resisto…ognuno è viaggiatore alla sua maniero sicuramente il mio è fare queste grandi spedizioni dove non cerco le difficoltà tecniche ma la complessità di organizzarmi, apprezzo il tempo che gli si deve dedicare, il tempo del campo base, la fretta di andare i campi avanzati, mi affascina la tattica di salita.
Quest’anno dopo 15 spedizioni, avendo capito che forse potevo fare tutte le 7 sorelle, le montagne più alte di ciascun continente, ho pensato che mi manca l’Everest e la montagna più alta dell’Oceania e se l’anno scorso l’Everest mi sembrava solo un’idea, poi col tempo questo tarlo si è fatto sempre più strada fino a decidere di partire.

Ora parlavi di tempi, i tempi frenetici prima della partenza, quelli concitati per salire ai campi alti della montagna, ma una volta arrivati in Nepal il tempo si dilata, come lo vivi tu quel tempo?

Nel primo momento vivendo una vita caotica in Italia e mettendo i piedi in parecchie scarpe , mi sembra di essere a rallentatore, di vivere con il freno a mano tirato. Dopo, quando il mio metabolismo riprende i ritmi regolari che sono poi quelli giusti si lavora e si vive quando c’è la luce si sta in tenda si dorme quando è buio, inizio a assaporare la lentezza, a vedere cose che a casa non vedo nemmeno.

È come riscoprirsi anche un’esperienza di vivere ritmi del corpo differenti? Ma in alta quota come sono i ritmi?

I ritmi lenti sono parte del viaggio che compi in Nepal, poi però mentre ti avvicini alla montagna tutto cambia, la fatica è immensa e te lo dice uno che di fatica sportiva ne fa tanta perché ho fatto molti iron man, ultramaratone, ma lo stare in alta quota è la fatica più grande che ci sia, ma anche questo per me è il bello, perché non è la performance sportiva, atletica in cui io do tutto, in cui so che c’è una partenza e un arrivo e finito. Nella salita di montagne così alte tu devi decidere tutto, sei tu che ti devi conoscerti, sei tu che sei l’organizzatore, il cronometrista, l’atleta, quello dei ristori. Devi capire il momento in cui tu stai bene, e sei pronto a salire, quando non sei ancora acclimatato, quando fai fatica, quando è il momento di agire velocemente quando di temporeggiare, e startene al campo base a leggere il libro e a giocare a carte. Devo conoscermi bene e questo conoscersi, dal mio punto di vista di parte, è pari all’affrontare delle difficoltà tecniche. Questo per me è il fascino di andare per montagne così alte.

In questa spedizione ti porti l’esperienza di lunga data e dei “bidoni”.

Chiaramente avendo tanto materiale alpinistico, tende ecc, non puoi pensare di portare questi kg in valigia quindi è uso fare dei carghi con cui mandi là questi materiali. Poi col tempo capisci che in questi bidoni il materiale tecnico è importante e poi capisci che ci sono cose che ci devi mettere dentro che non sono tecniche ma che sono per te importanti tanto quanto le cose tecniche per vivere questi 40 giorni in situazione un po’ estrema, diciamo. Per esempio capisci che l’alimentazione è importante, mangiare le cose abitudinarie, quello che mangi a casa è importante perché ti fa recuperare forze non solo fisiche ma anche mentalmente. Mettere nel bidone il pane che là non trovo, dei sughi, la pasta che mi danno idea di essere appagato quando ho mangiato, mi aiuta. Quindi porto cose tecniche ma anche cibo e tanti libri perché anche se ha un costo perché pesano so che mi aiutano. Nei tempi morti, nei tempi fermi quando si deve solo riposare, prima di ricominciare a salire e a scendere per acclimatarsi, mi aiutano mi fanno stare bene.

Che libri ti porti quest’anno?

Quest’anno porto Salgari, Rumiz, Vitali perchè mi sembra di leggere le storie che raccontava mio padre, Sepulveda un libro che racconta del fiume giallo e una raccolta di esploratori ante litteram e qualche altra cosa, che metto nel bagaglio.

Quest’anno porti anche un amico…

No, non porto un amico, viene da solo. Se vuoi la cosa è così, via da solo vai in solitaria, io sono andato da solo e sarei anche andato da solo perché dopo che le persone che sono sempre venuto che me piano piano non ci sono più. E per me che non apro vie nuovo, vado per le vie normali, non ci si lega, ognuno va al suo ritmo, e non avevo quindi pressione di portare qualcuno ma poi a gennaio Roberto mi telefona e io gli dico “dai vieni con me andiamo all’Everest che facciamo un bel giro”. E lui “ma non ho soldi, non ho ferie” allora io: “ma dai vieni via facciamo due bei mesi”. Allora lui ha detto: “a mezzogiorno sento il direttore se mi da le ferie”. E alle due mi ha telefonato che veniva. Questo è lo stile che piace a me, questa è la spedizione in stile gitante, questo è lo spirito.

Per te una spedizione cos’è quindi?

Un momento della vita come qualsiasi altro, la mia vita è fatta anche di spedizioni, non è una cosa da sottovalutare ma non è la cosa più importante della mia vita, è un momento della vita, che mi arricchisce, che mi fa far fatica e a me piace, è qualcosa che mi carica. Insomma è una gita.

La leggerezza nell’affrontare un’esperienza come questa quanto conta per te?

Per me se non dovessi avere leggerezza nella testa, se fosse una pressione, se avessi l’idea che sto facendo una cosa importante non potrei partire, smetterei di andare in Himalaya. Se non ci ridessi un po’ sopra, non so quante spedizioni avrei fatto, poche o nessuna forse. Poi io alla sicurezza ci tengo, conosco i miei limiti che sono tanti, ma non avendo da dimostrare nulla a nessuno quello che viene viene quindi ecco la leggerezza, senza prendere sotto gamba niente per me è importante.

Ci hai raccontato cosa porti con te di materiale, chi viene con te e che cosa di immateriale porti con te quest’anno?

Te lo dico quando torno cosa di immateriale ho portato con me.

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