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Pappo e Bucco e la loro storia d'amore nell'ultimo spettacolo della vita

Nuovamente premiato a Venezia il cortometraggio del regista Antonio Losito e interpretato da Massimo Dapporto e Augusto Zucchi. Una conversazione sul delicato tema dell’ eutanasia

Pappo e Bucco e la loro storia d'amore nell'ultimo spettacolo della vita
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8 Ottobre 2021 - 14.47


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di Alessia de Antoniis

 

Due volte a Venezia lo stesso cortometraggio: è Pappo e Bucco, scritto e diretto da Antonio Losito ed interpretato da Massimo Dapporto Augusto Zucchi. Dopo il grande successo ottenuto lo scorso anno con la presentazione ufficiale alla 77. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il cortometraggio “Pappo e Bucco” è sbarcato quest’anno nuovamente in Laguna per ricevere il Premio Città del Cortometraggio conferitogli dal Social World Film Festival.

Antonio Losito ha definito questo piccolo gioiello “una storia d’amore. Amore per la vita, dove i due protagonisti si troveranno a dover portare in scena il loro ultimo spettacolo: la fine”.

 

Per raccontare questo corto, forse bastano le parole scritte nella motivazione di un altro premio ricevuto a Roma per il Fabriano Film Fest. Pappo e Bucco – di Antonio Losito – miglior attore ex aequo a Massimo Dapporto e Augusto Zucchi. I due attori di Pappo e Bucco ci hanno regalato una magistrale interpretazione fatta di sguardi, di sorrisi tristi, di piccoli gesti: tutto misurato, tutto senza eccessi e senza sbavature. Ma questo concerto in minore è riuscito a dipingere a tinte forti una realtà di dolore che, nella sua delicatezza, arriva come uno tzunami alle emozioni dello spettatore”.

Bucco è Massimo Dapporto.

 

Massimo Dapporto bambino. Cosa ricorda del mondo che non esiste più dei tempi di suo papà?
Lo guardavo con meraviglia come tutti i bambini. Anche ora che sono grande, guardo il mondo con sorpresa. Ma allora non lo guardava con sospetto, cosa che invece faccio adesso. Sono arrivato a Roma che avevo cinque anni. Oggi quando giro per Roma la trovo molto cambiata e ancora di più nell’ultimo anno e mezzo. È cambiata la gente. E non sempre in meglio.


Figlio di Carlo Dapporto, si è formato alla Silvio D’Amico. Ha fatto la differenza o le sarebbe bastato imparare sul campo?

No, queste sono cose che fanno parte del provincialismo italiano. Lo trovo insultante. Io non faccio parte del nepotismo cinematografico, televisivo o teatrale Italiano. Mi sono formato per conto mio. Ho subito chiarito le cose con mio padre: “occupati del tuo lavoro e io mi occupo del mio. Forse impiegherò dieci anni di più senza raccomandazioni, ma voglio arrivare con basi solide”. E così è stato. Ha capito. Era comunque troppo onesto per raccomandarmi: gli ho tolto un peso. Essere raccomandato avrebbe significato, probabilmente, togliere lavoro a gente onesta magari più meritevole di me. È un ragionamento che non mi piace e che fa parte del marciume della nostra società, non solo italiana.

 

Amare la vita senza pensare alla morte è un artificio, uno scollamento dalla realtà?
Vivere non pensando che poi finirà tutto è da persone vuote. Siamo tutti destinati a scomparire come fisicità: non dico mai a morire, preferisco trapassare. Andremo in un’altra dimensione prima di rilanciarci sulla terra, probabilmente avremo altri percorsi. Non è che uno ritornerà in un’altra persona, ma una forza vitale di qualche tipo. L’importante è che si conservi il pensiero della persona. Dopo morto mi basterebbe continuare a pensare, aleggiando nell’aria. Sono convinto che siamo destinati ad andare avanti per l’eternità. Ma per affrontare l’eternità e necessario ogni tanto morire. O trapassare.

 

Pappo e Bucco tocca due facce della stessa medaglia: chi chiede di essere aiutato a morire e chi aiuta a morire chi ama. È corretto accusare chi vuole la morte buona, che sta chiedendo a un altro di diventare il suo assassino? Quanto è demagogico negare l’eutanasia?
L’eutanasia è una morte assistita, è un suicidio consenziente. La dolce morte, il dolce trapasso, è giusto. Pensi se lei fosse malata sapendo che non ne uscirà fuori, in una situazione dove è uno straccio di persona; magari ha cinquant’anni e pensa di viverne altri venti in questo modo. Cerca una persona che la assiste per toglierle la vita. Basterebbe un documento scritto in cui il morituro si assume tutta la responsabilità. Credo che l’eutanasia abbia un valore umano.

 

È inutile essere dei bacchettoni. Se una persona è una larva, è giusto lasciarla morire come vuole. Ognuno è padrone della sua vita. Evitiamo di costringere le persone a trasformarsi in assassini e aiutiamo chi soffre, individuando persone che li aiutino regalando loro un trapasso dolce. Altrimenti diventa una condanna, un fine pena mai, per una persona che non ha fatto nulla se non essere stata sfortunata.

 

Mancano registi e sceneggiatori che raccontano storie scomode o mancano i produttori?
Ci sono produttori che non leggono neanche le sceneggiatura: “Raccontami la sceneggiatura con parole tue che non ho voglia di leggere”. Produttori simili ci sono sempre stati e ci sono ancora. A questo si è aggiunta la riduzione dei budget. Se prima prendevi mille ora prendi dieci. Il covid ha peggiorato ancora di più le cose. Oggi un attore prende quello che prima prendeva un figurante. Mi ritengo fortunato ad aver lavorato per anni come professionista: oggi posso stare tranquillo a casa senza avvilirmi per lavori non pagati. Oggi preferisco lavorare con registi giovani, anche per pochi euro. Se invece produzioni importanti mi offrono paghe miserevoli, rifiuto.

Ai tempi di suo papà si mettevano in scena commedie musicali con abiti da un milione di lire…
C’erano produttori che investivano cifre da capogiro. Facevano regali oggi impensabili, come i gioielli regalati alla prima attrice. L’unico produttore di quel periodo, scomparso da qualche anno, che era rimasto a quel livello era Goffredo Lombardo della Titanus.
Ma c’erano anche altri incassi. Nel 1953, per Giove in doppiopetto, con mio padre, Giovannini e Garinei incassavano una media di 4 milioni di lire al giorno. Era una cifra stratosferica.

 

Un ricordo di suo papà che l’ha accompagnato nella vita?
Mio papà era un uomo saggio ed era preoccupato per me, perché sapeva che andavo incontro a un mestiere difficile, soprattutto all’inizio. Mi diceva “ricordati, a quarant’anni o sei Papa o sei chierichetto”. Voleva dirmi che a un certo punto devi guardarti indietro e fare un bilancio: se è giusto continuare con questo mestiere, se ti senti protagonista, se non riesce ad esserlo e per te è frustrante quello che fai. Più che consigli, mio padre dava l’esempio. Col suo modo di essere e di relazionarsi con gli altri.

 

Era uno che faceva beneficenza di nascosto. Un uomo molto sensibile, che si commuoveva. Osservavo molto mio padre e, facendolo, recepivo insegnamenti. Purtroppo se ne andato nel momento in cui incominciamo ad avvicinarci al genitore perché stiamo diventando grandi, quasi coetanei. Poi li superiamo e diventiamo noi i genitori e loro i bambini. È quando hanno bisogno del nostro aiuto: a quel punto inizi a parlarci. E quando ho iniziato a parlare con mio padre, avrei voluto farlo ancora a lungo. Purtroppo a 78 anni se ne andato.

 

Fino all’ultimo mi diceva battute per tenermi su. Mi manca. Anche se mi basta guardarmi allo specchio per vederlo. Mi manca perché con lui avevo iniziato un discorso tra uomini. Era sempre ottimista. Ricoverato per problemi di cuore, poche ore prima di morire, guardando il monitor con le stanghette che andavano su e giù, disse: “eh questo sarebbe stato un corpo di ballo stupendo. Guarda le gambe, guarda come le alzano tutte assieme” e ha riso.

 

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