Se non fosse per il peculiare pregiudizio che una parte consistente della critica cinematografica nostrana ha sempre palesato verso il cosiddetto cinema di genere, Sergio Martino sarebbe considerato uno dei maggiori registi viventi, un grande uomo di cinema tout court. Esattamente come lo ritengono Quentin Tarantino e una folta schiera di suoi colleghi e critici stranieri. Con 66 regie, 44 sceneggiature, 5 pellicole come direttore di produzione e una ventina tra serie televisive e tv movies, Martino è un profondo conoscitore dell’universo della celluloide, un sapere acquisito sul campo, carpendo i segreti del mestiere sui set, nelle sale di montaggio e doppiaggio, negli uffici di produzione, un lungo apprendistato che gli ha consentito un raffinamento delle tecniche di regia e di scrittura e proficue incursioni nel piccolo schermo. Un lavoro che lo ha visto confrontarsi creativamente con i generi più vari (western, giallo, thriller, poliziesco, fantascienza, avventura, azione, commedia nelle varie declinazioni), sempre premiato dal pubblico: da molti è considerato un regista di culto, e le soluzioni tecniche dei suoi film, come quelle di colleghi quali Fernando Di Leo, Umberto Lenzi, Romolo Guerrieri, Enzo G. Castellari ed altri, sono studiate e insegnate in diverse scuole di cinema straniere.
La parabola artistica di Sergio Martino s’inserisce in un momento storico dorato del nostro cinema, che va dagli anni Sessanta agli Ottanta, quando la cinematografia italiana era una florida industria economica e culturale, una fucina di progetti, di idee, di artisti: attori, registi, produttori, sceneggiatori, scenografi, costumisti, montatori, operatori di macchina, doppiatori, direttori della fotografia, musicisti, preparatissime maestranze… Oltre che rimpiangere quell’Eldorado, sarebbe opportuno serbare memoria di un immenso serbatoio di esperienze professionali e umane, ricostruire storicamente un mondo ormai scomparso e fare tesoro delle innovazioni tecniche, estetiche e del costume che produsse: un patrimonio che potrebbe rivelarsi ancora fecondissimo. In occasione dell’ottantatreesimo compleanno di uno degli artefici di quel cinema e di quella realtà, abbiamo intervistato Sergio Martino.
Quali erano le caratteristiche salienti del cinema dell’epoca in cui lei si è formato e ha operato e quali le maggiori differenze con quello di oggi?
Non posso valutare le caratteristiche di oggi, avendo girato la mia ultima fiction TV nel 2011. Per il grande schermo, addirittura, molti anni fa, in un tempo direi remoto. Di certo, quando facevo cinema negli anni ’70 e ’80 l’atmosfera era sempre propositiva e ottimista e sui set c’era molta energia. Tecnicamente ai miei tempi si abusava dello zoom, spesso per catturare dalle facce degli attori espressioni più significative. Oggi mi sembra che si abusi un poco troppo dei droni. Da bambino ho visto anche girare mio nonno Gennaro Righelli, i suoi ultimi film nell’immediato dopoguerra con Vittorio De Sica e Anna Magnani, presenziando anche a turni di doppiaggio, quindi sono depositario di ricordi di attrezzature da museo.
All’epoca la critica nei suoi confronti non sempre è stata benevola, al contrario i suoi film riscuotevano un grande apprezzamento da parte del pubblico: come viveva questa dicotomia?
Tutt’altro che benevola, era sempre riduttiva e negativa, i critici di allora non intuivano che i film di genere italiano erano venduti in tutto il mondo rendendo la nostra cinematografia la seconda dopo gli Stati Uniti, nel mondo occidentale. In quegli anni quella cinematografia di genere era una vera e propria industria. La critica privilegiava solo il cinema autoriale, in una visione miope della potenzialità industriale di quei film. Grazie a Quentin Tarantino, Vinicio Del Toro, Balaguerò e l’Académie française agli inizi del 2000, sorprendentemente noi registi definiti trash venimmo apprezzati ed invitati ai festival. Nel programma del mese di questo luglio, nel cinema di Quentin Tarantino a Los Angeles, ancora oggi figurano due miei film gialli, I corpi presentano tracce di violenza carnale e Lo strano vizio della signora Wardh. In passato sono stati presentati anche nelle università californiane, ma ancora oggi i registi cosiddetti tarantiniani, in Italia, da gran parte dei critici non sono mai considerati.
Lei ha girato film di generi cinematografici differenti: quale ritiene il più congeniale al suo modo di girare, e quali le sue opere artisticamente più riuscite?
Mi dicono i film di azione, molto adrenalinici quando li giravo, per i rischi che comunque si correvano, in quanto molte sequenze acrobatiche, seppure con i dovuti accorgimenti, presentavano degli imprevisti. Dopo aver girato molti film negli Stati Uniti, mi resi conto che in termini di sicurezza il cinema italiano di allora era a volte imprudente, in confronto.
La mia autobiografia Mille peccati… nessuna virtù? descrive i miei anni di cinema. Il produttore Adriano De Micheli che recentemente l’ha letta dice che dovrebbe essere consigliata a tutti i giovani che intraprendono la carriera cinematografica come un vademecum per conoscere il cinema di quegli anni e paragonarlo a quello attuale. Sono affezionato a due miei film non di azione che non vengono mai ricordati, La bellissima estate e Cugini carnali. Due film sentimentali che ebbero successo anche all’estero, il primo in particolare in Giappone, il secondo in Francia.
Lei ha cominciato molto presto a scrivere soggetti e sceneggiature: da dove traeva spunti per le sue storie?
Esperienze di vita, suggestioni derivate da altri film. Io non figuro come sceneggiatore di molti dei miei film di quegli anni, in quanto, per motivi di bilanciamento delle coproduzioni che necessitavano di autori dei vari paesi coproduttori, non li firmavo. Allora non si percepivano proventi in qualità di autore delle sceneggiature… ne ho perso così molti derivanti da una legge entrata in vigore alla fine degli anni Ottanta.
Quanto è stato importante per lei umanamente e professionalmente suo fratello Luciano, regista, sceneggiatore e produttore di successo?
Era mio fratello, ho detto tutto. Ci volevamo bene. Caratteri diversi, lui sicuramente più carismatico e comunicativo, io meno protagonista ma più realista. Siamo stati utili l’uno all’altro. Come cito nel mio libro, ci siamo aiutati alla pari, emblematicamente, un po’ come le immagini storiche del passaggio della borraccia tra Coppi e Bartali, sulle cime del Galibier. Io ero Bartali… mio fratello ironicamente mi riconosceva nella frase di Ginettaccio “L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. La borraccia però ce la siamo scambiata l’un l’altro, molte volte…
Dopo una vita trascorsa nell’ambiente cinematografico, non le viene mai il desiderio di tornare dietro una cinepresa? Scrive ancora dei soggetti o delle sceneggiature?
Ho avuto varie offerte anche recentemente, ma credo di non averne più il fisico. Il cinema che facevo era faticosissimo. La mia sedia con scritto “regista” era quasi sempre libera. Mi piaceva essere accanto alla macchina da presa, anche quando non c’era potevo utilizzare nei miei ultimi anni di lavoro il monitor. Mi piaceva avere un contatto quasi epidermico con gli attori in scena, soprattutto quando non si girava in presa diretta, e la mia voce sporcava il sonoro con incitamenti e suggerimenti. Credo di non averne più il fisico e preferisco lasciare il posto ai giovani.
Il cinema versa in crisi, situazione aggravata dalla pandemia. Secondo lei riuscirà a riprendersi, e in generale che opinione ha del cinema italiano contemporaneo?
Il cinema si deve vedere in sala, a mio giudizio. Il fascino del grande schermo è ineguagliabile e ti fa vivere le emozioni tra gente che non si conosce. Io continuo ad andare in sala, perché solo così riesco a concentrarmi, il cinema al televisore non mi fa concentrare e inevitabilmente e anche inconsciamente faccio zapping. Mi auguro che si possano ancora riempire le sale. Per ora credo che lavoro per chi fa cinema se ne crei quasi tutto tramite i grandi network che commissionano lunghe serialità e anche film per la sala. Non so se si possa ancora respirare l’aria positiva degli uffici di produzione dei miei anni. In effetti non li frequento, e da qualche anno anche se passo vicino ad un set nessuno mi riconosce più. Un ambiente ormai ben diverso da quello che conoscevo. Spero di sbagliarmi, ma ho nostalgia di quelle atmosfere.
Che consigli darebbe a un giovane che volesse intraprendere il mestiere di regista?
Privilegiare le storie non autobiografiche, ma film che possano essere graditi da tutte le platee del mondo, condite da esperienze personali. Avere pazienza, non andare in fibrillazione se il telefono non squilla. Se si ha talento alla fine quel telefono – o meglio, quel cellulare – squillerà. Se non accadrà, occorrerà prenderne coscienza, come ai miei tempi.