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'Lockdown all'italiana': possiamo già ridere di 35.000 morti?

Questo film è stato verosimilmente scritto proprio durante quel periodo, mentre a Bergamo i camion dell’esercito portavano via i morti e 35.000 persone morivano negli ospedali. E continuano a morire.

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17 Settembre 2020 - 16.57


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di Giuseppe Cassarà 

I film, prima di giudicarli, si guardano. Quindi quanto segue non sarà una recensione, ovviamente, quanto più un tentativo di spiegare il profondo disgusto che mi ha colto – e non penso di essere solo – alla notizia che Enrico Vanzina ha sfornato un nuovo film, un altro cinepanettone, o forse sarebbe meglio dire cine-tampone.

‘Lockdown all’italiana’ presenta 2 famiglie, e 4 personaggi (Ezio Greggio, Paola Minaccioni, Ricky Memphis e Martina Stella), bloccati in casa per il lockdown che ha sconvolto il mondo.

Parliamo di sei mesi fa: questo film è stato verosimilmente scritto proprio durante quel periodo, mentre a Bergamo i camion dell’esercito portavano via i morti e 35.000 persone morivano negli ospedali. E continuano a morire: forse la cosa più intrinsecamente fastidiosa di questo film, più delle faccette simpatiche di Ezio Greggio – le stesse da 40 anni – in locandina, è il fatto che scherza e fa ironia su qualcosa che è ancora in corso, che potrebbe verosimilmente ripetersi, come sta succedendo i Israele, in Inghilterra, in Francia, in Spagna, tutti paesi che stanno chiudendo di nuovo i battenti per questo virus su cui Vanzina ha scritto una commedia all’italiana.

C’è un bellissimo documentario di Ferne Pearlstein, The Last Laugh (L’ultima risata) che affronta un tema controverso: partendo dalle battute di humor nero sull’Olocausto, il film domanda a molti comici professionisti – quasi tutti ebrei – se si possa ridere delle tragedie. Sarah Silverman, grandissima comica statunitense di origini ebraiche, risponde: “Ovvio che si può ridere. L’importante è che faccia ridere”.

Sono fermamente convinto che abbia ragione: non esiste qualcosa di talmente sacro, talmente tragico che non possa essere oggetto di una risata. E d’altronde, tornando alla tragedia del lockdown, la signora Angela di ‘Non ce n’è coviddi’ ne è stata la dimostrazione, come lo erano i canti e i balli sui balconi.

Ma, appunto, l’importante è che faccia ridere. Esistono commedie sull’Olocausto, delicatissime, come Train de Vie di Radu Mihăileanu, o La Vita è Bella, o il capolavoro Vogliamo Vivere di Ernst Lubitsch. Sono film in cui gli autori hanno l’intelligenza e la sensibilità di capire che la risata è una catarsi dell’anima, non un modo per nascondere o scimmiottare la realtà, ma per affermare, riaffermare, la gioia della vita che è bella, nonostante tutto, come raccontava Benigni. L’ultima risata del documentario è quella di una sopravvissuta ad Auschwitz che afferma: “L’ultima risata è mia, alla fine. E ogni volta che rido, è come se lo facessi in faccia a Hitler”.

A chi sta ridendo in faccia Vanzina? A un virus che circola ancora, che sta prepotentemente tornando e che continua a uccidere in tutto il mondo? Si sentiva il bisogno di buttarla in caciara, di vedere tette, culi, rutti e scoregge e tutto il repertorio che è la cifra stilistica dei Vanzina, che ha fatto la loro fortuna, accostato a una tragedia ancora in corso? Davvero la prima riflessione filmica italiana su questa tragedia deve essere un film del genere?

Si diceva che questo film è nato durante la quarantena. Ecco, forse la cosa che mi dà più fastidio è che mentre 35.000 persone morivano, qualcuno ci vedeva del materiale buono per una commedia. Per carità, da un altro punto di vista può essere uno splendido modo di approcciarci all’esistenza, quasi una religione della risata. Vanzina, ne sono certo, è così che la vede. Ma io, e chiamatemi pure chiamatemi vecchio, bigotto, piagnone, preferisco pensare a quest’ultimo anno come qualcosa di cui ancora non si possa ridere sboccatamente. Preferisco il rispetto, preferisco anche il silenzio, perché non è sempre necessario dire qualcosa.

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