Pappagone e Totò: la rivincita di Peppino De Filippo | Giornale dello Spettacolo
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Pappagone e Totò: la rivincita di Peppino De Filippo

Pappagone rappresenta la maschera dell’uomo ignorante venuto dalla campagna. E con il principe Antonio De Curtis diede vita a una coppia irresistibile

Pappagone e Totò: la rivincita di Peppino De Filippo
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Giancarlo Governi Modifica articolo

24 Agosto 2020 - 11.55


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Il discorso su Peppino De Filippo qualche volta si fa imbarazzante, perché costringe a parlare di un attore straordinario, che è, però, passato alla storia (meglio sarebbe dire trasferito alla memoria collettiva), non solo come fratello del più celebrato Eduardo ma anche come compagno di lavoro del più considerato Totò, soprattutto, ed infine per un personaggio considerato minore (ingiustamente!) dalla critica e dal mondo accademico: il Pappagone che creò per la televisione negli anni Sessanta.

Si parla ancora a tanti anni dalla morte di Eduardo, ma non si parla più di suo fratello Peppino. In vita Eduardo ebbe onori e riconoscimenti – meritati, meritatissimi -, fu anche nominato dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini senatore a vita, il suo teatro fu rappresentato in tutto il mondo e tradotto in tutte le lingue, persino in russo e in cinese.

Peppino invece visse sempre ai margini, non fu mai accettato dalla cultura ufficiale, e il suo teatro pur avendo grande successo in patria, non varcò mai, tranne rare eccezioni, i confini nazionali e non fu mai rappresentato nei teatri più importanti.

Peppino attribuiva tutto questo all’ostilità di suo fratello, più autorevole e più influente sulle maniglie della politica.

Lo disse a più riprese pubblicamente e lo scrisse anche in un libro di memorie che si intitolava Una famiglia difficile e nel quale rivangava impietosamente le miserie della sua famiglia, segnata da segreti e da liti furibonde.

A distanza di tanti anni possiamo dire che Eduardo, dopo Pirandello, fu il più grande commediografo italiano del ‘900, mentre il teatro di Peppino è considerato un teatro minore, che riesce a mantenersi alto soltanto quando ricorre allo schema della farsa in cui Peppino è sicuramente re. Ma possiamo anche dire che Peppino fu un attore straordinario, che nella corda comica superava di gran lunga suo fratello Eduardo.

 

Ma il motivo di questa fama dimezzata è dovuto anche alla grande influenza che hanno i media nella conservazione e nella tradizione della memoria. Il cinema di Totò è stato riscoperto, rilanciato e consegnato a nuova vita e conseguentemente la stessa sorte è toccata a Peppino, compagno straordinario di Totò in ben 16 film, dove il ruolo della “spalla” tradizionale (il compagno del comico che si limita a porgere al comico il destro per il lazzo e per la battuta) viene completamente ribaltato, fino a farlo diventare il secondo elemento di una vera e propria coppia comica. Totò aveva ottenuto il privilegio (primo fra gli attori italiani) di avere il proprio nome nel titolo. Un privilegio che successivamente fu esteso anche a Peppino: «Totò e Peppino…» 

Peppino avvia la collaborazione con Totò nel 1952 con il film Totò e le donne. Ne gireranno assieme sedici in totale, di cui parecchi con i loro nomi nel titolo.

Con la sua aria da vittima, da contadino ottuso e caparbio, Peppino offre a Totò il destro per esercitare, con esilaranti effetti comici, la sua corda “cattiva”.

Tra i due si instaura immediatamente un rapporto vittima-carnefice, tenuto in piedi sempre da due personaggi poveri, vinti, entrambi vittime ma che giocano a prevaricarsi tra di loro, improvvisando espedienti di vita e facendo ricorso ad un linguaggio e ad espressioni gestuali totalmente inventati, che capiscono solo loro. Ma che vale anche ad isolarli dal contesto, rendendo difficile l’inserimento.

Eduardo dopo la rottura con il fratello, avvenuta proprio alla fine della guerra, si sente come liberato e subito dopo scriverà le sue opere più mature come Napoli milionaria!, Questi fantasmi! dove fa sua la lezione pirandelliana e Filumena Marturano scritta per la sorella Titina. Peppino ci metterà alcuni anni per decidere di mettere su un teatro suo, dedicandosi alla rivista e al cinema,  e quando lo farà lo chiamerà «Compagnia del Teatro Italiano» in polemica con Eduardo che invece continuerà a scrivere e a recitare in napoletano, sia pure in quel suo napoletano borghese, un po’ italianizzato.

La parte migliore del teatro di Peppino è però quella che ritorna alle farse delle origini, una farsa in cui si parla in italiano ma dove tutto è  in napoletano.

Ma Peppino alla metà degli anni Sessanta volle ritornare al napoletano e alla sua tradizione farsesca, al teatro dell’improvvisazione, alle maschere forti, quelle che vengono da lontano e che rappresentano gli archetipi della comicità come la fame, il sesso, il potere, con l’aggiunta dell’equivoco e dello scambio di persona.

Quelle maschere insomma che lasciano il segno e che entrano nell’immaginario popolare.

L’occasione per questo ritorno gli viene data dalla televisione che in quegli anni è diventata non solo spettacolo di massa ma anche l’elemento unificante dell’identità nazionale e della lingua.

Peppino viene chiamato a presentare una gara fra canzoni, una sorta di Canzonissima legata alla lotteria di Capodanno che quell’anno si chiamava Scala Reale. Per l’occasione inventa il personaggio di Pappagone che diventerà una delle maschere popolari dei primi anni della televisione.

Peppino riprende il personaggio da una commedia di Armando Curcio, un bravo commediografo napoletano la cui fama fu oscurata proprio dai fratelli De Filippo i quali però portarono al successo alcune fra le sue commedie come La fortuna con la effe maiuscola, A che servono questi quattrini? ed anche I casi sono due dove c’è questo personaggio di cuoco che si scopre figlio naturale e smarrito del suo padrone e che Peppino, successivamente, farà diventare Pappagone, passando attraverso il Carosello di “Peppino, cuoco sopraffino”.

 

Pappagone rappresenta la maschera dell’uomo ignorante venuto dalla campagna. Lo possiamo vedere da come si veste, da come si pettina: i capelli incolti a caschetto con il ciuffo sulla nuca, un vestito rigatino tipo vestito della festa, cappello ben calcato, fazzoletto cadente dal taschino con penna stilografica, e un grosso corno rosso sempre penzolante dal taschino.

E’ insomma il contadino sceso in città dalla campagna richiamato dalla grande trasformazione conseguente al miracolo economico, e si è messo al servizio del «Commendatore Puppino De Filippo» come cameriere, «uomo di camera», ma si spaccia per il factotum, il segretario, lo sbrigafaccende del suo datore di lavoro: è insomma l’altra faccia di Peppino, il suo doppio.

La comicità di Pappagone nasce appunto dall’impatto violento fra due culture: la placida e immobile cultura contadina segnata soltanto dal ciclo del sole e delle stagioni e la società industriale di massa con le sue regole, la burocrazia, le tasse, la lingua.

Ed è proprio sulla lingua che Peppino fa l’operazione più interessante anche dal punto di vista della popolarità perché la gente, soprattutto i bambini, ripetono le sue stesse parole.

Pappagone stravolge il linguaggio perbene, il linguaggio della cultura dominante, lo assoggetta alla sua logica e, soprattutto al suo orecchio di ignorante che lo porta a equivocare sul significato e la pronuncia delle parole. Così facendo, oltre a ottenere un sicuro effetto comico, Peppino De Filippo, ottiene anche l’effetto di ridicolizzare il linguaggio ufficiale.

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