Bertolazzi, l'Oscar di un emigrato che incarna il valore del cinema italiano | Giornale dello Spettacolo
Top

Bertolazzi, l'Oscar di un emigrato che incarna il valore del cinema italiano

Forse prima che sia troppo tardi qualcuno capirà quanto male è stato fatto al cinema italiano e proverà a rimediare.

Bertolazzi, l'Oscar di un emigrato che incarna il valore del cinema italiano
Preroll

GdS Modifica articolo

27 Febbraio 2017 - 16.19


ATF
di David Grieco

Caro Alessandro,

stanotte mi ha dato una delle più grandi emozioni della mia vita. Quando ti ho visto ritirare il Premio Oscar per il make up insieme ai tuoi colleghi Giorgio Gregorini e Christopher Allen Nelson ho vissuto fino alle lacrime lo stesso, indimenticabile senso di giustizia che provai quella notte di 30 anni fa in cui Bernardo Bertolucci conquistò nove statuette per “L’ultimo Imperatore”.
Eppure anche tu non avevi alcuna chance. Il tuo principale avversario era anni luce davanti a te: un prodotto hollywodiano celeberrimo come “Star Trek”, con tutti i suoi mega computer. Mentre tu e i tuoi compagni di lavoro, con le vostre manine, avevate realizzato qualcosa di estremamente artigianale e originale per il film “Suicide Squad”. Sulla carta, in questo mondo ebbro di tecnologia in cui viviamo, era impossibile che l’Academy celebrasse i vostri talenti.
Invece è accaduto. A dimostrazione che il Premio Oscar rimane tuttora l’ultimo, più grande e più autentico riconoscimento del cinema mondiale. I Festival e i premi in Europa sono ormai tutti pilotati e gestiti politicamente fino alla nausea. Solo il Premio Oscar rimane ancora libero e imprevedibile. Solo il Premio Oscar rappresenta un onore al merito da parte di tanti professionisti del cinema pronti a riconoscere il talento degli altri senza farsi condizionare da opportunità e opportunismi.

Potrei fare tanti esempi clamorosi del passato. Mi basterà citare “Million Dollar Baby”, un film che Clint Eastwood volle realizzare nel 2004 contro tutto e contro tutti, un film che parlava di un tema spinoso come l’eutanasia, un tema enorme di cui continuiamo a discutere in questi giorni. Nel 2004, Clint Eastwood venne preso per matto, e mi confidò che se avesse fallito in quell’impresa si sarebbe ritirato. Invece vinse 4 Oscar, i più importanti, e poté regalare al mondo tanti altri film memorabili.

Caro Alessandro, in un giorno come questo che il disastrato cinema italiano dovrebbe incorniciare, ammesso che abbia ancora una parete per celebrare il talento, voglio raccontare chi sei. Anche perché in Italia il solito coro dei barbari in servizio permanente, capeggiato dal solito Salvini, ha già preso posizione, con la solita, ottusa violenza, contro di te.
Salvini ha sentenziato: “Premio Oscar per il miglior trucco a tre persone fra cui l’italiano Alessandro Bertolazzi: “Questo premio è per tutti gli immigrati”. E ti pareva…Ipocrisia al potere! I 9 milioni a rischio POVERTÀ ringraziano. P.S. A Hollywood (e in Italia) è facile fare i BUONISTI con il portafoglio pieno”.

Devi pensare, caro Alessandro, che Matteo Salvini guadagna molto più di te, ma lo paghiamo tutti noi contribuenti, e non si è ancora capito cosa sappia fare, oltre a vincere gare improvvisate di rutti medievali.
Per questo trovo importante, in questo momento, far sapere chi sei. Perché tu non hai soltanto lanciato un messaggio contro la politica folle di Donald Trump. No, questo mi pare secondario. Tu hai detto quello che hai detto, usando solo una manciata di parole, perché tu SEI, a tutti gli effetti, un emigrante.
Fra qualche giorno tornerai felicemente nell’anonimato. Ma adesso a me preme spiegare perché tu incarni il grande valore del cinema italiano molto più di Federico Fellini o Bernardo Bertolucci. Come tanti “tecnici” italiani emigrati a Hollywood. Come il tuo collega truccatore Manlio Rocchetti che fu spinto anch’egli ad emigrare, e che come te vinse il Premio Oscar nel 1990 per “A spasso con Daisy”, invecchiando con le sue sole mani Morgan Freeman in modo miracoloso.

Manlio è scomparso il 9 gennaio scorso. Non credo che il cinema italiano si sia ricordato di lui. Se è accaduto, mi deve essere sfuggito.
Sei dovuto emigrare, come Manlio Rocchetti, perché il cinema italiano ha pian piano distrutto tutte le sue straordinarie professionalità, fino a lasciare in vita soltanto i registi e gli attori. Registi ed attori sempre più modesti, perché sono venute a mancare tutte le altre professionalità che hanno creato nel dopoguerra il grande miracolo del cinema italiano.
Tu ed io ci siamo conosciuti 13 anni fa, quando stavo preparando il film “Evilenko” tratto dal romanzo “Il comunista che mangiava i bambini”. Mario Cotone (il più grande produttore esecutivo che il cinema italiano abbia mai avuto, l’uomo che ha reso possibili “L’Ultimo Imperatore” e “La vita è bella”) mi chiese se avevo già in mente un truccatore e un parrucchiere. Mi corre l’obbligo di ammettere che lo guardai con una faccia un po’ ebete, come se non capissi la domanda. Mario Cotone invece capì subito: “Vabbè, non ci hai pensato e non sai di cosa parlo. Il trucco è importante. Lunedì ti faccio incontrare una persona”.

Il lunedì successivo venisti in ufficio con il parrucchiere, Massimo Gattabrusi. Mi parlasti delle tue esperienze teatrali con quel genio assoluto di Tadeusz Kantor. Mi sembrasti, da subito, un intellettuale puro, e nel più puro senso del termine. Avevi con te un mucchio di scartoffie. Avevi fatto una ricerca molto approfondita sull’epoca del film, sull’ambientazione del film, e sul raccapricciante protagonista del film. Già ne sapevi quasi quanto me. Ed eri molto eccitato all’idea di cominciare.

Sul set, ebbi modo di scoprire quanto tu e Massimo Gattabrusi eravate importanti. Importanti quanto il direttore della fotografia Fabio Zamarion, lo scenografo Nello Giorgetti, l’operatore Roberto Luzi e tanti altri collaboratori. Alla fine delle riprese, mi resi conto che quel film, come tutti i film, è stato il frutto dello straordinario talento di tanti, a cominciare da te. Questo ha cambiato completamente il mio modo di pensare. Ho avuto la fortuna di crescere, fin da ragazzo, con tanti grandi registi. A 50 anni suonati, ho capito che anche il più grande dei registi non è nessuno se non è in grado di circondarsi di collaboratori di talento e di farli lavorare in armonia. È questo, essenzialmente questo, il compito di un regista.

Per “La Macchinazione” non sono riuscito ad averti, perché lavoravi in America. Ma sei venuto a Roma apposta per vedermi, e abbiamo trascorso giornate intere a parlare di Pasolini e del film. Alla fine, mi hai dato la tua allieva più brava, Paola Gattabrusi, ed è stato come se ci fossi tu. Ciò che ha fatto Paola può giudicarlo chiunque abbia visto il film. Il volto di Pier Paolo Pasolini morente è un’immagine che gli spettatori, credo, non potranno mai dimenticare.
Forse, grazie a te, prima che sia troppo tardi qualcuno capirà quanto male è stato fatto al cinema italiano e proverà a rimediare. Chissà.

Un grande abbraccio
Native

Articoli correlati