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I film nascono dagli incontri: Fuocoammare di Gianfranco Rosi

Gianfranco Rosi è un grande regista. Ma è anche un innovatore che dopo avere vinto il Festival di Venezia con Sacro GRA, oggi viene celebrato per il suo immenso talento.

I film nascono dagli incontri: Fuocoammare di Gianfranco Rosi
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20 Febbraio 2016 - 21.55


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I film nascono dagli incontri: Fuocoammare di Gianfranco Rosi

Di Marco Spagnoli

@marco_spagnoli

Gianfranco Rosi è un grande regista. Ma è anche un innovatore che dopo avere vinto il Festival di Venezia con Sacro GRA, oggi viene celebrato per il suo talento e la sua lungimiranza nel raccontare e nel portare alle massime conseguenze un genere cinematografico che sta conquistando vette sempre più eccelse grazie al lavoro di cineasti proprio come Rosi.

“I miei documentari nascono da un incontro con un luogo e con le persone che lo abitano.” spiega il vincitore dell’Orso d’Oro con Fuocommare “Personalmente sono convinto che solo il tempo ti consenta di raccontare delle storie con il ritmo e la distanza giusta per arrivare a capirle. La verità in un documentario può solo derivare dal rapporto di fiducia che riesci a stabilire con la persona che stai filmando.” Dice Rosi del suo stile che definisce un lavoro importante in grado di sostenere in pieno la diversa potenza delle storie che vengono raccontate. “Sono andato a Lampedusa la prima volta su richiesta nell’autunno del 2014 per verificare la possibilità di girare un corto di 10 minuti da presentare a un festival internazionale.

L’idea dei committenti era di proporre un lavoro breve, un instant movie, che portasse in un’Europa pigra e complice, che negli anni ha ricevuto un’eco distorta e confusa della realtà del fenomeno migratorio, un’immagine diversa di Lampedusa. Per molto tempo anche per me Lampedusa è stata un coacervo di voci e immagini legate ai telegiornali, alla morte, all’emergenza, all’invasione, alla ribellione dei populisti.

Una volta arrivato sull’isola ho scoperto una realtà molto lontana dalla narrazione mediatica e politica e ho verificato l’impossibilità di condensare in pochi minuti un universo così complesso. Era necessaria un’immersione prolungata e approfondita. Non sarebbe stato facile.” Continua Rosi nelle sue note di regia che, esattamente come i suoi lavori, introducono lo spettatore verso una narrazione differente e innovativa lontana dai luoghi comuni o da ciò che più semplicemente appare.

“Sapevo che era necessario trovare una porta d’ingresso. Poi, come spesso accade nel cinema documentario, è arrivato il caso e l’imprevisto. A causa di una fastidiosa bronchite che mi colpì proprio nei giorni dei sopralluoghi, sono andato al pronto soccorso di Lampedusa. Lì incontro il dottor Pietro Bartolo, il direttore sanitario dell’Asl locale che da trent’anni cura i lampedusani e da quasi altrettanti assiste a ogni singolo sbarco, stabilendo chi va in ospedale, chi va nel Centro di Accoglienza e chi è deceduto. Senza neanche sapere che io fossi un regista alla ricerca di una possibile storia, durante quella visita, Pietro Bartolo ha voluto condividere con me il suo vissuto sul fronte dell’assistenza medica e umanitaria. Quel che ha detto, le parole che ha usato, mi hanno colpito profondamente. È scattata una complicità, ho visto in lui quella persona che poteva trasformarsi in un personaggio del film.

Dopo un’ora e mezza di scambio intenso, il dottore ha acceso il suo computer per mostrarmi delle immagini inedite e farmi “toccare con mano” il senso della tragedia dei migranti. In quel momento ho capito che dovevo trasformare la commissione per un corto di 10 minuti nel mio nuovo film.”

E quindi questo il senso del viaggio di Rosi regista e dei suoi inconri: la capacità di ascoltare e di vedere in qualsiasi momento le possibilità di un racconto diverso e non banale che trascenda la cronaca, focalizzandosi, invece, su quello che c’è davvero di profondo e umano in una narrazione legata al cinema del reale.

“Tutto quello che è successo a Lampedusa nel corso degli ultimi 20 anni ha cambiato il loro modo di vedere e sentire le cose.” Aggiunge il cineasta “Oltre a Pietro Bartolo c’è stato un altro incontro fondamentale: quello con Samuele, un bambino di 12 anni, figlio di 8 pescatori. Mi ha conquistato ed ho capito che attraverso il suo sguardo, ingenuo e puro, avrei potuto raccontare l’isola e i suoi abitanti con maggior libertà. L’ho seguito nei suoi giochi, con i suoi amici, a scuola, a casa con la nonna, sulla barca con lo zio. Samuele mi ha permesso di osservare l’isola in modo diverso e inedito.

Decidere di trasferirmi a vivere a Lampedusa è stato determinante. Per più di un anno ho vissuto il lungo inverno dell’isola e i tempi del mare. Questo tempo mi ha permesso anche di cogliere il reale andamento dei flussi migratori. Era necessario superare la tendenza tipica dei media di andare a Lampedusa solo in occasione di una emergenza. Stando lì ho capito che la parola emergenza non ha senso: tutti i giorni c’è una emergenza, accade qualcosa. Non si può cogliere il senso di quella tragedia senza un contatto non solo ravvicinato, ma anche continuativo. Solo così, tra l’altro, avrei potuto comprendere meglio il sentimento dei lampedusani che da vent’anni assistono al ripetersi di questa tragedia.

Nei miei film mi sono spesso trovato a raccontare mondi circoscritti, che fossero realmente o idealmente tali. Questi universi, a volte piccoli come una stanza, hanno una loro logica e un loro movimento interno. Coglierli e riportarli è la parte più complicata del mio lavoro. Così è stato per la comunità di drop-out nel deserto americano (Below Sea Level), un mondo isolato con delle regole a se stanti i cui confini erano quelli dell’appartenenza a un’idea e a una condizione. Così è stato per il killer pentito del Narcotraffico (El sicario, room 164), chiuso dentro una stanza d’albergo, replicando i gesti del suo crimine e le regole della sua comunità di criminali. Lo stesso si può dire per quell’altra comunità umana che vive ai margini del raccordo anulare (Sacro Gra). A Lampedusa mi sono allo stesso modo trovato a comprendere il funzionamento, se così posso esprimermi, di altri mondi concentrici con le loro regole e i loro tempi: l’isola, il Centro di Accoglienza, la nave Cigala Fulgosi.

Da Lampedusa è impossibile andar via, come anche stabilire il momento in cui è terminato il tempo delle riprese. Se questo è vero per tutti i miei film lo è ancor di più per questo.“ conclude il regista che riporta in Italia non solo l’Orso d’Oro, ma anche l’orgoglio di un cinema civile in grado di raccontare al mondo intero la tragedia di una piccola isola, punto di incontro di culture differenti, di speranza, di disperazione, di civiltà.

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