Silvio Governi, romano, classe ‘67, autore e regista di punta della nuova generazione, dopo la gavetta come aiuto regista e le prime esperienze alla direzione di spot pubblicitari, programmi televisivi per la RAI, e numerosi documentari e corti, arriva all’International Short Film Contest di Reggio Emilia con una pellicola “particolarmente toccante” che mette a nudo la disperazione di un onesto padre di famiglia costretto a rapinare una banca.
Com’è nata l’idea di scrivere “Ad esempio”?Due motivazioni mi hanno spinto a scrivere questo corto: innanzitutto, sono sempre stato affascinato dal caso e dal destino, anche dal punto di vista letterario, e questo ha sempre influenzato il mio modo di pensare e rapportarmi tanto alla scrittura quanto al cinema. Mi attrae l’idea che ci sia la casualità alla base dell’incontro tra il protagonista, uomo disperato interpretato Vinicio Marchioni, che va in banca per rapinarla, e la sua famiglia che era lì per motivi certamente meno criminali. È una fatalità che unisce due intenti opposti e, dal punto di vista del padre, questo va a contrastare gli insegnamenti che lui stesso dà al bambino, minando l’idea che ogni figlio ha del proprio padre: una sorta di eroe, un esempio cui ispirarsi, a cui ambire per costruire i veri valori. È un contrasto che mi intrigava molto.
In secondo luogo, e questo è l’aspetto più personale, mi interessava indagare le condizioni dei padri separati in Italia (io sono un papà separato, perciò sono particolarmente sensibile all’argomento) per i quali non ci sono sufficienti tutele, almeno non quanto le madri, in termini di diritto di famiglia. Statisticamente, e questo voglio annunciarlo, sarà il tema centrale del mio prossimo documentario, uno su quattro chiede sostegno alla Caritas, o si rivolge alle “Case dei papà”. Dunque, anche se Ad esempio non riguarda il caso di un padre separato, il fatto stesso che un uomo perda il lavoro implica una situazione “limite” drammaticamente reale e comune a tanti genitori; però, allo stesso tempo, una simile situazione mi ha permesso di riflettere sulla particolare intensità del rapporto padre-figlio. Credo che la separazione per un padre sia un’occasione per fare il padre veramente: ti permette di cogliere ogni istante passato con tuo figlio in un modo diverso, esclusivo.
Che significato ha avuto condividere questo percorso con due attori come Vinicio Marchioni e Sabrina Impacciatore?È stata una grande esperienza. Memorabile. Ritengo Sabrina una delle più grandi attrici italiane del momento, almeno della nuova generazione, quindi confrontarmi con un’artista del suo calibro è stato per me molto importante anche a livello formativo. Anni fa, girando un documentario, ebbi l’occasione di intervistare Ettore Scola e gli chiesi qual era secondo lui l’attrice “erede” di Monica Vitti, e lui, senza titubare, rispose Sabrina Impacciatore. Concordo. Se penso a Vinicio è immediata l’associazione alla sua grande sensibilità e disponibilità. È conosciuto principalmente come Il Freddo della serie “Romanzo Criminale”, ma lavorando con lui ho scoperto con piacere che è un attore molto scrupoloso e che, nonostante questo fosse un corto e non un film, ha accettato volentieri di collaborare anche per proseguire nel suo percorso di “allontanamento” da quel personaggio televisivo con il quale si tende ad identificarlo. Credo che Vinicio abbia molte risorse a livello recitativo, molte sfumature interpretative (sa essere tenero, sa essere un sex symbol, sa essere cattivo, sa essere dolce) ed ero curioso di vederlo in un ruolo diverso, nuovo. Devo dire che lo ha fatto con grande professionalità e maestria.
Comunque, aggiungo, il mio rapporto con loro è stato molto fruttuoso: io come regista tendo ad ascoltare sempre i suggerimenti degli attori e i loro approcci con i personaggi, e se le loro proposte sono migliori delle mie, le accolgo molto volentieri. Per me questo significa essere regista: l’attore non è qualcuno da plasmare, ma qualcuno con cui confrontarsi senza imposizioni. Sabrina in questo progetto ha aggiunto qualche battuta che ha dato più profondità al suo personaggio, svelando quel lato di semplicità e umiltà che lo caratterizza. Lo stesso vale per i costumi: durante le prove fatte insieme alla costumista lei ha avanzato proposte che sono servite a definire dettagli visivi e caratteriali che non vengono esplicitati nei dialoghi ma che si devono comunque percepire quali elementi costitutivi e identificativi di quella personalità. È un lavoro alla pari, di confronto e condivisione comune. Meraviglioso.
Che importanza ha per lei partecipare al Reggio Film Festival con questo lavoro?È una sorpresa e un onore. È un festival internazionale, quindi il solo fatto di essere selezionati è già una vittoria. Ho partecipato a diversi festival, alcuni anche internazionali, con diversi riconoscimenti, però non è mai facile: arrivano da tutto il mondo migliaia e migliaia di cortometraggi e magari ne selezionano poche decine, il che rende particolarmente difficile la partecipazione. Inoltre, oggigiorno, in un’epoca di avanzato stadio di “riproducibilità tecnica”, quasi tutti possono disporre di strumenti idonei all’espressione di un talento cinematografico e narrativo. Ma questa è un’occasione speciale che diventa ancora più emozionante nel sapere che la madrina è proprio Sabrina e che hanno voluto evidenziare così tanto il mio corto, dicendo che è un film particolarmente toccante. Tutto questo non può che tradursi per me in grande motivo d’orgoglio e fierezza.
In quanto rappresentante della nuova generazione di autori e registi, come commenta l’attuale stato di salute del cinema italiano?Il cinema italiano credo tenda a restare fermo a una condizione penalizzante per chi si affaccia al mestiere artistico. In Italia ci si basa ancora, purtroppo, sulle conoscenze, sui contatti e sulle opportunità che ognuno deve crearsi indipendentemente dall’idea, dal progetto proposto. Se sei professionalmente ancora molto giovane, se non hai ancora esordito, i sostegni sono molto, molto limitati. Faccio un esempio pratico: quando si chiede un finanziamento al MiBact per un’opera prima, il contributo non solo viene concesso con molta difficoltà ma non può nemmeno considerarsi una prima concreta base sulla quale costruire l’opera stessa, perché il finanziamento viene elargito solo se si dimostra la capacità di reperire sul mercato il resto del budget. E questo significa avere alle spalle una produzione forte. In un certo senso è come se si dovesse palesare che quell’opera prima può realizzarsi anche senza il finanziamento ministeriale, il che, di per sé, è un controsenso. Per i giovani è sempre più complicato esordire: io ci sto provando da molto ormai ma ancora non ci sono riuscito. Ho scritto una prima storia e non ce l’ho fatta. Ora sto provando con una seconda a renderla “commercialmente” più attraente, dovendo però fare spesso i conti con una serie di compromessi produttivi che non sempre collimano con l’originale volontà artistica.
Progetto che potremmo presto vedere sul grande schermo?Girare il mio primo lungometraggio è al momento la mia principale ambizione. Mi rifaccio al già citato Scola che poco fa alla Festa del Cinema di Roma ha sostenuto come attualmente ci sia una povertà di idee che impedisce di comprende realmente cosa un regista voglia raccontare, quasi ci fosse una necessità produttiva anche laddove manchi poi, nel concreto, la presenza di un messaggio forte da comunicare. Credo che abbia ragione. Credo che molto spesso manchi un’idea narrativa centrale, fondante: perché il problema non è come racconti ma cosa racconti. Quel che mi interessa, e che farò con il mio nuovo film, è scavare a fondo un tema cruciale come quello della paternità slegandola però dal vincolo del legame biologico. Questo è il mio sogno e il mio mestiere. E continuerò a tentare di realizzarlo cercando livelli espressivi più impegnativi, più, se posso dirlo, “alti” come, appunto, il lungometraggio.