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Rai: per l’audience il padrone si fa boss in incognito

Boss in incognito. È l’espressione di un’ideologia che si è fatta legge e che ora pretende di conquistare anche le menti dei cittadini. [Domenico Tambasco]

Rai: per l’audience il padrone si fa boss in incognito
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22 Gennaio 2016 - 10.48


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di Domenico Tambasco

Un nuovo tassello dell’analisi di Domenico Tambasco sul mondo del lavoro che cambia. Stavolta non si parla di una norma introdotta con il Jobs Act o dell’ennesimo attentato ai diritti dei lavoratori ordito da Renzi e dal suo governo. L’attenzione si appunta sulla trasmissione televisiva “Boss in incognito”, trasmessa in prima serata da Raidue. Lo svilimento del “servizio pubblico” televisivo, assoggettato sempre più alle dinamiche del mercato pubblicitario, da una parte, e il malcelato tentativo di costruire un nuovo immaginario collettivo, in favore dell’ideologia neoliberista e di uno scenario sociale da “postdemocrazia”, dall’altra, sono i principali elementi di riflessione. Buona lettura. (pfdi)

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Non contento di aver dettato il testo delle leggi che egli stesso dovrà osservare da qui all’eternità, il “sciur padrun” ottiene ora anche un ruolo da protagonista nella prima serata del palinsento della televisione pubblica. Nemico dei provincialismi linguistici che mantiene soltanto nel ristretto perimetro della sua “fabbrichetta”, il novello “giovin signore” preferisce farsi dare in pubblico del “boss”: lui è un “Boss in incognito”.

È questo, infatti, il titolo di una trasmissione che domina il prime time di Raidue prodotta dalla società esterna Endemol, trasmissione che rappresenta la concreta esemplificazione di quella che è stata definita da Colin Crouch l’essenza della “postdemocrazia”: la perdita del concetto di ente pubblico, il crollo dell’autostima e del significato di servizio pubblico a fronte della “conclamata superiorità” delle conoscenze e delle competenze dei privati[1]. Privati che dichiarano essere questo “format” – acquistato ovviamente a spese dei cittadini – il “docu-reality più rivoluzionario della tv”, dove i protagonisti sono i “boss che si camuffano e lavorano per una settimana sotto mentite spoglie insieme ai loro dipendenti”[2].

In cosa consiste lo sbandierato contenuto rivoluzionario?

È presto detto. Viene scelto ogni settimana il dirigente di una grande società e, dopo la consueta marchetta esercitata in favore delle mirabilie aziendali, il padre-padrone si cala nel mondo dei suoi figli, assumendo le fattezze dei dipendenti che osserva con sguardo attento nell’incedere del loro lavoro quotidiano: ecco all’opera la religiosa mistica dell’incarnazione datoriale, che agisce in modo occulto. E cosa importa, poi, se tutto questo avviene in totale spregio delle garanzie dello Statuto dei Lavoratori, ferrovecchio che – senza pensare alle magnifiche sorti e progressive del futuro neoliberista – aveva stabilito con l’art. 3 il divieto di controlli sull’attività lavorativa, fatti all’insaputa dei lavoratori e con modalità tali da ledere la loro libertà e dignità[3].

Piace al campione dell’Auditel, e tanto deve bastare.

La storia si sviluppa in una dimensione lavorativa totalmente “piallata”, dove si è perso il ricordo delle associazioni sindacali dei lavoratori e ci si trova intrappolati all’interno di un’oscura piramide, in cui alla base formicolano masse di poveri lavoratori i quali si affannano ignari dei piedi e degli occhi di chi sta sulla sommità.

Piedi e occhi: il “boss”, infatti, ricorda ai lavoratori – sul cui sguardo terrorizzato indugia sadicamente la telecamera – che “Egli” ha il potere di schiacciarli in ogni momento e, al contempo, ha l’anima di commuoversi.

Ecco finalmente arrivare in soccorso del “poveretto” le garanzie delle onnipotenti leggi del mercato televisivo, che pretendono il lieto fine a favor di audience: ed il padrone si scioglie in un abbraccio, porgendo la busta dove, al posto della retribuzione, si trova ora il “premio” (che sia una ricarica telefonica o un viaggio non importa), ricompensa per un tremante dipendente.

Si potrà dire che è solo un gioco, e che quella di chi scrive è la solita critica radical-chic al gusto nazionalpopolare. Si può dire, certo. Ma si può anche sostenere che, dietro a questa apparente innocenza, si celi il progetto di passare dal “buon senso” al “senso comune”[4] del lavoro. Il che vuol dire diffondere l’idea che il lavoro non sia strumento di emancipazione individuale e di partecipazione collettiva all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, ma espressione di subordinazione ed obbedienza ai comandi del padrone. Significa riaffermare un mondo in cui il corrispettivo del lavoro non è il diritto alla retribuzione, ma la fortuna di essere premiati da un “boss” benevolo.

È l’espressione di un’ideologia che si è fatta legge e che ora pretende di conquistare anche le menti dei cittadini.

È l’ennesima manifestazione di una subcultura nemica dei valori fondativi della democrazia costituzionale e, a ben vedere, anche un po’ “mafiosa” (il termine boss è lì a ricordarlo in modo ammiccante): che il servizio pubblico si faccia latore di ciò, è il lato osceno del villaggio globale.

NOTE

[1] Colin Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 108-113.

[2] Parole tratte dalla pagina web della società di produzione Endemol.

[3] Così Grandi-Pera-De Luca Tamajo–Mazzotta, in Commentario alle leggi sul lavoro, Padova, Cedam, 2012, p. 722.

[4] Per il passaggio dal “buon senso” al “senso comune”, si veda Salvatore Settis, Azione popolare, Torino, Einaudi, 2012.

L’articolo è uscito il 20 gennaio 2016 su [url”MicroMega online”]http://temi.repubblica.it/micromega-online[/url].

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