Carlos è un adolescente irrequieto, simpatico e inventivo. Vive a Barcellona in una famiglia con i consueti conflitti e moti d’affetto, distante ma non troppo dalla scuola, vive il rap, gli amici. Viene seguito da psicologi o assistenti sociali nel monologo “A.K.A.” dell’argentino Daniel J. Meyer, rappresentato di recente in prima nazionale al Teatro di Rifredi di Firenze.
Carlos conosce tramite un’app una ragazza. L’amore esplode con le naturali paure ed entusiasmi reciprochi finché un’irruzione imprevista nel luogo in cui i due amoreggiano per la prima volta devasterà le loro vite. Soprattutto il ragazzo. Perché, lo scopriamo via via, lui è un immigrato e a qualcuno tanto basta per odiarlo ferocemente.
Con la regia di Angelo Savelli, il monologo è andato in scena con esiti eccellenti nel teatro nella zona nord della città, accanto a quella piazza Dalmazia dove il 13 dicembre 2011 Gianluca Casseri lasciò sul selciato Samb Modou, 40 anni, Diop Mor, 54 anni, senegalesi, e su una sedia a rotelle a vita il 37enne Moustapha Dieng.
L’assassino, simpatizzante di una organizzazione di estrema destra, non ebbe neppure il coraggio di affrontare la giustizia e si sparò a sua volta. Anni dopo “A.K.A.”, che sta per “also known as”, come a dire “il vero nome è …” , invita a riflettere anche sul razzismo che sempre più avvelena la vita civile.
Interpreta il monologo con estrema sensibilità sui vari registri (drammatico, ironico, divertito, strafottente con tenerezza, spaventato) il 25enne attore e rapper fiorentino Vieri Raddi. Con il graffito multicolore di Scenartek alla Keith Haring come fondale, vale sperare che il promotore dello spettacolo Teatro della Toscana faccia girare “A.K.A.” come meriterebbe invece di lasciarlo solo a repliche della prossima stagione nella sala cittadina. Oltre tutto il monologo, calibrato alla perfezione, di circa 70 minuti, è adattissimo anche ai ragazzi e alle scuole superiori.
Ne parla Raddi stesso.
Raddi, senza svelare altro il suo personaggio viene accusato di un crimine orrendo ed è immigrato. Cosa ne pensa, considerato quanto accade oggi?
Lo spettacolo fa luce su dinamiche di razzismo e discriminazione e a tutt’oggi ci imbattiamo facilmente in pregiudizi e narrazioni che vanno a offuscare i fatti e le realtà. È facile cambiare l’opinione di grosse fette di popolazione raccontando in modo diverso tante storie dove la premessa è che quella persona non è di qui, è uno straniero, è immigrata. “A.K.A.” cerca di accendere un faro sui pregiudizi che cambiano la nostra percezione degli altri.
“A.K.A.” affronta anche il tema della violenza sulle donne. Di recente il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha affermato, in un video alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin “che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”. Come la vede?
Non mi permetterò di esprimere un’opinione su dati statistici, il punto è la narrazione. Ogni qual volta si parla di crimini, soprattutto di violenze e di violenze sessuali e che sono molto comuni, scatta come un tabù, una vergogna, si dice “io non c’entro nulla”. Invece la violenza maschile sul genere femminile è uno dei più grandi problemi di cui dobbiamo occuparci, è una faccenda di educazione al genere.
Gli uomini bianchi nati in Italia non sembrano molto immuni dalla violenza sulle donne fino a massacrarle: tra i nostri moltissimi femminicidi basterebbe ricordare assassini condannati come chi ha massacrato Giulia Cecchettin, Filippo Turetta, o Alessandro Impagnatiello che ha avvelenato e poi accoltellato Giulia Tramontano.
Se lo Stato parla della provenienza dei carnefici manchiamo il punto che, palesemente, è quello dell’educazione. Se giovanissimi come Turetta sono capaci di compiere un atto del genere vuol dire che stiamo sbagliando qualcosa nel modo in cui raccontiamo la violenza sessuale e in che modo tutti contribuiamo a formarla. Se ragazzi così giovani, della mia età e più piccoli, sono in grado di pensare violenze così terribili, allora la violenza è insita nel modo in cui cresciamo noi ragazzi: manca un’educazione alla parità di genere e agli spazi personali.
Cosa può fare uno spettacolo come “A.K.A.”?
È un monologo sfaccettato e rivoluzionario.
Perché rivoluzionario?
Per tanti motivi. Il primo è che lo ha scritto un autore che sa parlare ai giovani con la lingua di un adolescente. Poi si lega a correnti artistiche come l’hip hop, i graffiti, il rap, si affaccia su realtà giovanissime quando nel teatro di solito questo viene fatto in modo “gringe”, un po’ forzatamente, risultando a volte imbarazzante. Inoltre tratta più tematiche complesse, scottanti, dalla discriminazione razziale alla violenza sessuale con una svolta finale, con una scelta morale del protagonista da ammirare, non consueta.
I brani cantati dal vivo sono suoi, giusto?
Sì. L’hip hop e il rap sono il mio pane quotidiano, sono un attore e un rapper: per me il rap è vero, reale, è il mio modo di esprimermi.
Come rispondono i ragazzi e le ragazze ai moti del giovane protagonista?
In modo molto emotivo, lo spettacolo è come una montagna russa, sentono vicina la vita di Carlos. Quando per esempio chiedo come vestirmi per il mio primo appuntamento soprattutto nei licei mi rispondevano; mi urlavano, quando Carlos si affaccia al mondo del sesso i ragazzi in sala si battevano i gomiti, si immedesimavano, ridevano ma erano presi: vivevano in modo crudo un’emozione diversa dagli adulti, che trovano la poesia. Ho visto molte ragazze e molti ragazzi commuoversi.