RezzaMastrella: «Lo stupro va equiparato all’omicidio, non c’è giustizia per le donne» | Giornale dello Spettacolo
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RezzaMastrella: «Lo stupro va equiparato all’omicidio, non c’è giustizia per le donne»

Dopo una loro trilogia al Vascello di Roma Antonio Rezza e Flavia Mastrella descrivono il loro lavoro teatrale, gli effetti del Leone d’oro nel 2018, del pubblico

RezzaMastrella: «Lo stupro va equiparato all’omicidio, non c’è giustizia per le donne»
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7 Gennaio 2020 - 14.59


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Da Laura Saltari di Wondernet Magazine riceviamo e volentieri pubblichiamo questa intervista.

Alessia de Antoniis

Antonio Rezza e Flavia Mastrella sono due esseri individuali. Altre definizioni sono limitate e limitanti.
Antonio Rezza è “l’artista che fonde totalmente, in un solo corpo, le due distinzioni di attore e performer, distinzioni che grazie a lui perdono ogni barriera” e Flavia Mastrella “è l’artista che crea habitat e spazi scenici che sono forme d’arte”. Questa la motivazione del conferimento del Leone d’Oro per il teatro 2018.
Hanno trascorso le feste al teatro Vascello di Roma con la trilogia Fotofinish , Bahamuth e Anelante. Vedere Antonio Rezza sul palco è un’esperienza. Il suo umorismo anarchico, le vibrazioni che emanano dal suo corpo, le intonazioni di ogni singola parola che diventano linguaggio di suoni, il suo fisico che si espande nello spazio creato da Flavia Mastrella, creano un musical senza musica, una sorta di teatro dove non ci sono più confini tra oggetti, parole, movimenti, gesti, luci; tra performer e pubblico o tra scena e platea.
Geniali. Attori, registi, sceneggiatori, scenografi o cosa? Ma importa davvero darne una definizione se la sensibilità dello spettatore è così scossa e sollecitata o se a distanza di decenni i loro spettacoli sembrano appena scritti?
Al centro del loro teatro niente psicologia e niente morale: solo l’uomo. E la sua magia.

Ipnotici, trascinate il pubblico andando al di là della semplice ilarità. Riuscite ad abbattere le barriere inibitorie. Come fate ad arrivare in modo così potente?
FM: è un insieme di linguaggi che crea questo stato ipnotico: c’è il linguaggio dell’immagine, del colore, del corpo, della parola, della parola in sintesi e tutto questo, psicologicamente, scardina l’attenzione.
AR: Perché quello che facciamo è potente e innovativo, completamente sfrontato. È un discorso coraggioso, da eroi, da guerriglieri. Qualcosa che esce da dentro di noi. Non mi sono mai posto il problema. Mi accorgo che siamo potenti, ma il motivo non lo so.

Flavia, come nasce il legame con Antonio e cosa continua a tenervi insieme?
FM: Ci unisce la creatività e il senso dell’arte. Insieme riusciamo a completarci, ci compensiamo: insieme facciamo un gigante della montagna.

Dall’esterno, lui appare come un uomo dirompente, che può invadere lo spazio altrui. Come ha resistito ad un rapporto artistico con una persona così totalizzante?
FM: Portiamo avanti discipline diverse: Antonio è comunicazione corporea e dialettica. Io comunico in altro modo e da lì l’apparente diversità nel comportamento. Ma anch’io ho un carattere molto forte.

Che messaggio volete trasmettere con le vostre performance?
FM: La fantasia. Noi diamo stralci di argomenti che lo spettatore completa. Lo costringiamo al meccanismo fantastico, a mettere in funzione la fantasia. Noi diamo delle piccole sollecitazioni che crescono nella persona. Il nostro lavoro inizia con lo stupore e finisce con lo stupore. Io e Antonio siamo indipendenti: ognuno fa il suo lavoro, lo uniamo, ci stupiamo, lo portiamo avanti, lo mettiamo ancora insieme e lo proponiamo alle persone. Queste, poi, hanno un grande margine di interpretazione.
AR: Noi non lanciamo messaggi. Per raggiungere il nostro livello di virtuosismo ci vuole abnegazione, che non significa negazione di se stessi ma sacrificio, talento, assenza di assistenzialismo. Troppe cose. Non vogliamo lanciare messaggi a nessuno. Non servirebbe a nulla.

Quando per la Rai avete girato “La tegola e il caso”, siete entrati nelle case di persone che magari neanche vi conoscevano. Com’è stato “giocare fuori casa”?
FM: La tegola e il caso è l’apoteosi del nostro sistema comunicativo. Con quello abbiamo raggiunto altissimi livelli di comunicazione sciamanica, perché tutti si lasciavano andare. La nostra era una provocazione.

Come siete arrivati in Rai? È televisione lottizzata e voi siete fuori da certe logiche…
AR: Siamo entrati semplicemente perché ci sono nostri estimatori che ci hanno dato la possibilità di fare quello che volevamo. Se noi facciamo quello che vogliamo, lavoriamo con tutti, non ci formalizziamo. A noi non importa fare televisione semplicemente per farla. Ci hanno dato carta bianca, altrimenti non avremmo accettato.

Chi vi vede o vi odia o vi ama. Non lasciate indifferenti…
FM: È una questione di comunicazione. Chi ha bisogno di certezze, odia questa comunicazione perché noi non ne diamo. Noi diamo luce alle incertezze.

Comunque non è un teatro comprensibile a tutti…
AR: No, su questo non sono d’accordo. Se mi dici che il nostro non è un teatro comprensibile a tutti, mi devi portare quelli che pensano di comprenderlo e io dimostro che non è comprensibile neanche a loro. Se uno pensa di capire quello che facciamo, è un povero illuso.
Il nostro teatro è per tutti, non per chi si vanta di capirlo. Può venire a vederci il bambino o la persona anziana, l’operaio o l’ingegnere. La bellezza è per tutti. Chiunque pensi che sia “più per lui”, è un poveraccio. Del pubblico che dice “non tutti li capiscono” non ce ne facciamo nulla. È un atto di presunzione. Non saprei neanche dirti se facciamo teatro: facciamo musica, ritmo, percussioni. Percuotiamo.

Flavia, con i suoi habitat, porta l’arte contemporanea in teatro. È un modo per essere ancora più unici?
AR: Siamo in teatro per comodità, perché si riesce ad allestire, a fare quello che non potremmo fare in una galleria d’arte. Ma quello che facciamo è distante dalla pratica teatrale. Sicuramente è potente, ma non lo fa nessuno, né in Italia né all’estero. Io, che non ho cultura e ne vado fiero, dico: se i critici, i giornalisti, i tecnici, gli intellettuali, hanno notizia di un tipo di teatro in qualche parte del mondo che ricorda il nostro, ne parlassero. Non è presunzione, ma un’osservazione reale. Ognuno deve essere consapevole della sua unicità. Questa è una forza per continuare a fare cose uniche.

Antonio, perché non performa mai testi dei quali non siete autori, ad esempio Cechov, Pirandello o altri?
Pensiamo di essere noi gli autori migliori che ci sono. Non possiamo perdere tempo a rappresentare testi di autori già esistiti. Pirandello non ha perso tempo a rappresentare altri. Non sarebbero nati Shakespeare o Cechov se avessero rappresentato altro. Noi stiamo facendo una forma di rappresentazione contemporanea che ci sopravviverà. Non abbiamo tempo per rivolgere l’attenzione ad autori del passato. Perché mettere in scena autori del passato quando ci siamo noi che siamo già del passato? Mi porrei il problema se fossimo due mediocrità. È chiaro che se fai Pirandello hai più possibilità di recitare nei teatri, ma noi aborriamo questa logica. Avete già autori come loro: perché fingere che, siccome noi siamo vivi, valiamo meno dei morti?

Nei vostri spettacoli, fortemente politici, parlate di religione, immigrazione, lavoro, sesso. Siete contro dio o contro la religione?
AR: Non sono contro dio, penso che non esista nessun essere superiore, nessuno che possa salvarci o consolarci. Penso che chiunque crede in qualcosa di superiore, ha un cervello che lavora a tre pistoni e non a quattro: uno è occupato da qualcosa che non esiste. Non dico che sia più stupido, ma meno veloce. Basta vedere gli occhi dei fedeli iniettati di speranza, di cazzate. Se parliamo in modo razionale, dio non può esistere. Come fa ad esistere uno che ha creato tutto questo? Non può esistere in nessuna cultura, se vogliamo confrontarci in modo razionale con un minimo di apertura mentale. Se poi vogliamo continuare ad essere ottenebrati, ad avere una facoltà occupata dalla salvezza, dalla speranza, dalla possibilità che qualcuno possa pararci il culo, ognuno è libero di farlo.

E la violenza sulle donne o la violenza di genere?
FM: È un argomento talmente triste che non credo valga la pena affrontare. Noi pensiamo che tanti problemi possano essere risolti dal movimento del cervello. La cosa più importante è scardinare questa dittatura estetica fondata sulla certezza. Le altre cose vengono da sé. Sono cose che trovo di una tristezza unica.
AR: credo che le donne non abbiano ancora capito quello che viene loro negato. Quando si parla di uomo primitivo, si parla di uomo di Neanderthal, homus erectus, sempre al maschile. Questi uomini sono stati partoriti da donne. Quindi la donna viene scippata anche dalla storia. Noi viviamo in un Paese dove lo stupro viene considerato meno grave di una rapina a mano armata. Mi sembra che le donne si stiano nascondendo dietro falsi problemi: quando non c’è una legge che garantisce la giustizia nei confronti di chi subisce un atto così violento come uno stupro, che dura tutta la vita, parlare delle pari opportunità è una copertura. Io non sento nessuna donna che si incazza perché per lo stupro non vengono date condanne esemplari. Siamo ancora ai tempi del delitto del Circeo: il processo viene fatto alla donna. Lo stupro va equiparato ad un omicidio: può durare cinque minuti come ore. Le violenze di gruppo arrivano a durare giorni. Queste persone dopo due anni sono fuori, mentre nella mente di chi ha subito la violenza, ogni sequenza di un film, ogni telegiornale, fa rivivere quei momenti. Non ci si libera più di un atto del genere. Credo che l’omicidio conferisca all’individuo molta più dignità di uno stupro.

In Bahamuth dite: se è un maschio sarà un politico, se è femmina una prostituta. Sembra una frase maschilista…
FM: Trovo sia una questione realistica. Almeno nel mio ambiente, il maschilismo è dilagante. Una donna diversa passa i guai. È la realtà dei fatti. Dicendo frasi più edificanti non avremmo detto la verità.

Nel finale di Fotofinish trascinate sul palco spettatori che vengono toccati in parti intime, mentre il pubblico li deride. Perché un finale così?
FM: Sesso e potere vanno insieme. È lo stesso discorso di Bahamuth: è semplice verità. In guerra, ad esempio, gli stupri di massa sono una regola. Anche gli americani lo stanno facendo. È una forma di umiliazione per i popoli vinti.

Avete mai avuto reazioni negative?
AR: Una volta una ragazza mi ha dato un pugno, ma era in malafede: aveva cercato di invitarmi a bere un paio di volte e io avevo rifiutato. Veniva spesso a vedere gli spettacoli e quando mi diede questo pugno fu quasi una rivalsa per il mio rifiuto. Mi ha dato fastidio perché interruppe l’azione, ma è successo una volta in vent’anni. In genere il pubblico coinvolto si abbandona al gioco. Qualcuno dice “no, non farlo”, ma poi lo faccio lo stesso e si lasciano coinvolgere.

Siete stati insigniti, nel 2018, del Leone d’oro alla Biennale di Venezia. Siete fuori dal sistema: vi aspettavate un premio così istituzionale?
FM: No, io no. Mi ha turbato. Ma è stato il risultato di varie e miracolose circostanze. I miracoli esistono. Anche se non sono cattolica.
AR: È stata la cosa più bella che ci hanno mai dedicato. È il gesto disinteressato del direttore artistico della Biennale, Antonio Latella, un grande artista che non si è formalizzato di fronte alla nostra diversità e che ringraziamo per la sua libertà di giudizio e limpidezza di pensiero. Dedichiamo questo Leone d’oro a tutti quelli che non lo vinceranno mai. Io ho dormito benissimo i primi mesi, pensando alla bile di chi non lo avrà mai, e che spesso sono stati i nostri più profondi detrattori. Quindi è dedicato a loro!

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