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Un Natale che non finisce mai

Alle crisi energetiche ed economiche di oggi l’Italia non reagisce più con la stessa sobrietà degli anni Settanta. L'evasione consumistica e la fragilità economica sembrano concorrere a creare un clima in cui l’impegno civico trova meno spazio tanto che la comunità si ritrova più facilmente sotto le luci di un’installazione artistica che alle urne

Un Natale che non finisce mai
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Marcello Cecconi Modifica articolo

12 Dicembre 2025 - 14.55 Culture


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Le festività natalizie italiane hanno sempre rappresentato un osservatorio privilegiato per cogliere i mutamenti profondi del Paese: economici, sociali e perfino simbolici. Oggi, alla luce della crisi energetica legata al conflitto russo–ucraino e del progressivo impoverimento di molte famiglie dopo la pandemia, è inevitabile domandarsi come mai l’Italia non reagisce più con la stessa sobrietà degli anni Settanta.

L’austerity dei primi anni Settanta rimane una ferita storica e al tempo stesso un rito collettivo: auto ferme la domenica, illuminazione pubblica ridotta, negozi costretti a chiudere prima. La crisi energetica scaturita dalle guerre in Medio Oriente scosse il Paese e impose misure drastiche, vissute come un dovere civico. Il risparmio era un valore, la sobrietà un atto di responsabilità condivisa.

Oggi questo tipo di reazione sembra lontanissimo. Eppure, siamo in presenza di una nuova crisi energetica e di un crescente senso di precarietà economica con quasi sei milioni di poveri, quelli che secondo l’Istat non possono permettersi di acquistare un paniere di beni e servizi essenziali, ai quali si aggiunge l’impoverimento di quel ceto medio che per decenni si era percepito come stabile. Nonostante ciò, non si è manifestato un comportamento collettivo paragonabile all’austerity. Anzi, le città italiane anticipano l’avvio delle luminarie, le campagne pubblicitarie invocano il Natale già a metà settembre, e il consumo energetico legato alle feste cresce nonostante i costi.

La differenza non può risiedere soltanto nel contesto geopolitico ma è soprattutto un fatto culturale. Il consumo è divenuto parte integrante dell’identità sociale, una specie di linguaggio condiviso modellato da globalizzazione, marketing e iperconnessione. Di conseguenza le festività non sono più solo un momento di pausa o tradizione ma un prodotto, un’esperienza, un’infrastruttura/piattaforma scenografica che ritma il calendario urbano.

In questo scenario le amministrazioni comunali, pur lamentando bilanci in difficoltà, non lesinano investimenti crescenti in installazioni, attrazioni e grandi eventi. L’illuminazione diventa un volano per il turismo natalizio, spesso mordi e fuggi, dai ritorni economici incerti ma dalla visibilità immediata. La Toscana offre esempi particolarmente emblematici di questa tendenza: Firenze con Florence Light Up dal 6 dicembre al 6 gennaio; Empoli, che dilata il calendario con Empoli Città del Natale dal 15 novembre all’11 gennaio; Siena, che propone Siena Incanta – Il Natale tra cultura e meraviglia dal 1° dicembre al 7 gennaio. Tre casi che mostrano come le città non si limitino più a “decorare” il Natale, ma lo progettino come un evento immersivo e totalizzante.

Il paradosso è evidente: consumiamo più energia proprio mentre il suo costo aumenta, alimentiamo il sistema del consumo anche quando molte famiglie sono costrette a tagliare sulla spesa quotidiana. Il Natale, da rituale domestico e comunitario, diventa un grande palcoscenico urbano, un dispositivo che punta a generare attrattività più che introspezione.

Aldilà dell’evidente paradosso, in questo eccesso luminoso, però, si coglie anche un bisogno profondo di leggerezza e protezione: un desiderio quasi antropologico di normalità dopo anni segnati non solo da crisi economiche e sanitarie, ma anche da un cannoneggiamento informativo continuo. Media e social hanno moltiplicato immagini e racconti di guerre, bombardamenti, bambini uccisi, violenze indicibili, catastrofi climatiche, emergenze migratorie descritte spesso come minacce alla sicurezza. Un flusso incessante che crea una vera e propria infodemia emotiva, capace di generare angoscia, senso di impotenza e saturazione psicologica. Ecco che le abbondanti luci natalizie anticipate, forse sovrabbondanti, finiscono per assumere il ruolo di una barriera simbolica contro la complessità del mondo: le luci rassicurano, anestetizzano, costruiscono una bolla temporale che ci permette di mantenere in sospensione i problemi.

Certo è che rispetto alla risposta di sacrifici condivisi alla crisi degli anni Settanta, la risposta a quella di oggi appare più individuale e frammentata. La spettacolarizzazione del quotidiano, l’evasione consumistica e la fragilità economica sembrano concorrere a creare un clima in cui l’impegno civico trova meno spazio tanto che la comunità si ritrova più facilmente sotto le luci di un’installazione artistica che alle urne.

Emerge in tutta la sua esplosiva forza un cambio di paradigma: non è solo il Natale a essere diverso, è il modo in cui viviamo collettivamente le difficoltà. Tra crisi energetiche, consumismo globale, bisogno di evasione e disaffezione civica, le festività diventano lo specchio di un Paese che cerca disperatamente bellezza e sollievo tuffandosi nell’effimero e virtuale, ma fatica a riconoscersi in un progetto comune.

Forse la sfida dei prossimi anni sarà proprio questa: trovare un equilibrio tra effimero e responsabilità, tra luccichio e consapevolezza, tra il desiderio di leggerezza e la necessità di partecipare alla vita pubblica che ci riguarda tutti.

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