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Le Piume di Morris ci parlano della realtà distopica in cui siamo tutti immersi

Abbiamo intervistato il duo torinese in occasione dell’uscita del loro album d’esordio

Le Piume di Morris ci parlano della realtà distopica in cui siamo tutti immersi
In foto LePiumeDiMorris. Credits Patrycja Holuk
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24 Marzo 2025 - 13.20 Culture


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di Luisa Marini

Le Piume di Morris vengono da Torino: Lucia, con la sua esperienza nel teatro e Cordelia, con la sua sperimentazione musicale, hanno messo insieme le loro voci e i loro corpi per creare qualcosa di originale. Le ho scoperte una sera dello scorso anno, seguendo il concerto degli Animaux Formidables, altro gruppo torinese. Venerdì 14 marzo è uscito DOG TV, album di debutto: 9 tracce autoprodotte registrate a Londra. Ne parliamo sia con Lucia sia con Cordelia. Quindi alle domande rispondono di volta in volta l’ una o l’ altra o entrambe. Il lettore lo capirà dalle iniziali del nome accanto alla risposta.

Che riscontro avete dal pubblico dopo l’uscita del vostro album? Ho visto un vostro video sui social in cui avete fatto delle interviste in giro per Torino facendo ascoltare le vostre canzoni.

Lucia: È andata molto bene. Abbiamo fermato la gente per strada, di tutte le età, perché volevamo capire l’impatto del nostro sound, e il feedback è stato magnifico. Abbiamo approcciato le persone dicendo loro “dite davvero quello che volete” perché, se una cosa non piace, è giusto che venga fuori, e sia persone molto giovani che persone già di una certa età sono rimaste entusiaste. Sui social ci sono delle persone che ci hanno chiesto di acquistare il CD. Vedremo che cosa succede il 26 sera, quando faremo il concerto dove è partito tutto, lo Ziggy Club di Torino.

In che senso è partito tutto?

L.: Mentre facevamo teatro, abbiamo avuto notizia del contest musicale organizzato da questo club. Dato che Cordelia fa musica da anni, ci siamo detti: buttiamoci e sperimentiamo, con tutte le mie strampalerie teatrali e Cordelia con la sua musica; c’era gente bravissima, ma abbiamo vinto noi.

Da lì, abbiamo iniziato a cercare di capire come funziona il sistema dei concerti, che per noi era un mondo assolutamente nuovo, e abbiamo cominciato a girare; poi, abbiamo partecipato a un altro contest a Cava dei Tirreni e anche lì abbiamo vinto il premio per la proposta più interessante. In seguito, abbiamo deciso di registrare il nostro primo disco.

Parlateci della sua nascita, e come mai avete deciso di registrarlo a Londra.

L.: Inizialmente volevamo registrarlo a Cava dei Tirreni, però ci risultava scomodo muoverci, perché, oltre che lontano, più che altro si sarebbe dovuto procedere per step, che voleva dire andare su e giù più volte e diventava problematico. Abbiamo cercato qui a Torino e nei dintorni, ma non c’era nessun produttore dal quale davvero ci sentissimo rappresentati, perché la cosa più difficile era cercare di mettere dentro anche la performance, era molto complesso far sentire questa cosa. Allora abbiamo deciso di fare una follia e siamo andati a Londra, perché è un desiderio da sempre di Cordelia. Cordelia: Diciamo che ho dei forti legami affettivi e storici con quella nazione dal punto di vista musicale!

Anche solo la visionarietà dei Beatles, per citare uno su tutti.

C.: Sì, sono stati un pozzo senza fondo di sorprese: pensiamo ad esempio alla storia di come è nato il famoso scatto sulle strisce pedonali per la copertina di “Abbey Road”. Questo è qualcosa che, secondo me, oggi vale una miniera d’oro perché, se oggi non programmi tutto nei minimi dettagli, sembra che sia impossibile fare qualcosa di creativo. Il risultato è che oggi siamo sommersi da strutture con zero creatività, e all’epoca questi quattro, anche con pochi soldi, riuscivano a fare delle cose splendide. Di aneddoti come questo, di come è nata quella copertina, ce ne sono tantissimi.

Altre suggestioni musicali che ti vengono da Londra?

C.: Le suggestioni sono molte, troppe: Bowie, che ho ascoltato tantissimo, più il periodo berlinese che quello glam, e amo il periodo della sua collaborazione con Brian Eno e Robert Fripp, il trio magico. Il gruppo che mi ha insegnato di più, perché l’ho ascoltato veramente con orecchio clinico, sono i Radiohead, io sono veramente devoto a quei cinque. Poi ci sono tantissime cose di “brit pop” che mi appassionano: i primi Roxy Music, i Cure in tanti passaggi meravigliosi, il “Bristol sound” e quindi tutto il “trip hop” degli anni 90 con i Portishead, i Massive Attack; la musica elettronica più sperimentale, più scozzese, la Woa è una casa scozzese che pubblica ancora. All’epoca nacque l’IDM, l’Intelligent Dance Music, che prendeva i ritmi classici della techno e dell’house ma li virava in una forma più intellettuale, diciamo così, infatti uno di questi gruppi, gli Outaker, sono uno dei miei gruppi preferiti. E poi erano gli anni 90, c’era quell’incontro tra una tecnologia evoluta di computer ma ancora saper usare gli strumenti vecchi, quindi anche lì una circostanza eccezionale nella quale si sono create cose magnifiche. Quindi tra elettronica, rock alternativo, pop più audace e magari qualche classico, questi sono i riferimenti inglesi che ho.

Come vi siete conosciute?

C.: Siamo una coppia da 24 anni, io all’anagrafe sono Marcello! Però ho questo rapporto privilegiato con gli abiti femminili da quando avevo 12 anni: ho sempre amato indossarli, è una cosa che ho sempre praticato nella mia vita in modo privato, e poi a un certo punto ho deciso di utilizzarli in maniera artistica perché effettivamente dà qualcosa in più all’interpretazione.

Nel vostro album c’è una critica allo spaesamento dalla realtà, mediata da tanti schermi (quelli della televisione e dei cellulari), come se fossero specchi.

L.: Viviamo una società un po’ distopica: la gente, tutte le informazioni che ha, le ricava dalla televisione e dai social, soprattutto dal cellulare, e in questo il condizionamento è veramente totale, e in più crea delle dipendenze non da poco. Se sali in autobus, sul treno, è impressionante perché trovi pochissima gente che legge, ma sono tutti quanti col video del cellulare, e questo purtroppo è devastante, perché gli adulti sono un po’ rimbecilliti, ma sono i bambini quelli che pagano le maggiori conseguenze di questa cosa perché, quando sono neonati, già gli ficcano in mano i cellulari e dopo hanno gravi disturbi, perché non hanno sperimentato il gioco. Si confonde la realtà con la finzione e questo genera mostri, e noi ne abbiamo la responsabilità.

Comunque, questa realtà va contrastata in qualche modo; secondo me, esiste l’uomo in senso universale che ha una parte che è quella, ma ne ha anche un’altra su cui invece si può e si deve lavorare, e questo è lo scopo del fare arte, i cui risultati possono piacere o non piacere, però è importante cercare di far pensare.

Come vi rapportate ai social?

L.: Oggi ci troviamo in una realtà in cui, come per la Banana di Cattelan, tutto è usa e getta, le persone, gli artisti hanno un tempo breve, e in questa brevità diventano improvvisamente degli dèi, per poi precipitare all’inferno il giorno dopo. Per questo, abbiamo deciso di non sponsorizzare le nostre pagine social, per esempio, ma di far sì che le persone che ci seguono siano proprio quelle che magari sono venute a vedere i concerti e hanno deciso di farci amici; è un numero esiguo, perché sono solo 400 persone, però sono 400 persone vere. I social devi usarli, perché fanno parte del nostro tempo, però a volte è controproducente, perché chi ti prende i concerti la prima cosa che fa è andare a vedere quanti follower hai: è una roba tremenda, però funziona così.

Dunque, bisogna cercare di non essere in quel flusso cavalcando l’onda, ma in una maniera che abbia un senso, soprattutto un senso critico.

L.: Esatto.

Parliamo della forma delle vostre canzoni, che è originale: c’è la voce di Cordelia sul testo, ma c’è anche il controcanto di Lucia, che è come se dicesse: “ok, ma c’è anche quest’altro”. I vostri testi, dunque, sono da una parte spiazzanti, ma dall’altra rivelatori.

Sì, ad esempio, ne Gli amanti di Brighton c’è la storia d’amore di questa coppia sulla spiaggia, al sole, e poi improvvisamente c’è l’abisso: entri proprio dentro l’acqua fredda del mare, al buio. Perché nulla ha mai una sola dimensione.

Tra i pezzi che compongono l’album, ho notato una trama: all’inizio c’è l’uomo che non c’è (un ghost, ripreso significativamente dal Cavaliere inesistente di Calvino: la title-track DOG TV); poi un trio (due donne e un uomo: Sewer Surfer); molte donne che devono ritrovare sé stesse (Favola Nera, Goccia di saliva, Corrida, Penelope) che si alternano a qualche coppia (Psicobalera e Gli amanti di Brighton); e infine – ancora – i fantasmi (L’ora dei fantasmi). Legando insieme tutte queste suggestioni, è tutto un puzzle che si ricostruisce, siete d’accordo?

C.: Sì, esatto. A me piacciono i concept-album, e l’intenzione era cercare di seguire quella pista.

DOG TV è il nostro tentativo di sintesi tra un mondo manipolato, i cui abitanti sono i cavalieri inesistenti, che sotto l’armatura hanno il nulla, e un mondo ancora sano, che resiste alla manipolazione di fatti, vite e sentimenti.

Nelle note dell’album, definite il genere della vostra musica Art Rock; inoltre, c’è la vostra anima teatrale aggiunta alla musica. Quando eseguite le vostre performance è come se voi diceste al pubblico di prendersi una pausa per riflettere su quello che hanno ascoltato, creando un rapporto interattivo con esso. Voi come lo sentite, stando dall’altra parte?

L.: Calcola che veniamo dal teatro di ricerca, dove lavori tantissimo su di te, e non sul recitare, ma sul cercare dentro le cose, per cui tutto quello che viene fuori è frutto intanto dell’interazione col pubblico in quel momento, per cui ogni volta non è mai uguale ad un’altra; certo, ci sono cose che sono quelle, tipo i testi eccetera, ma, a seconda dell’interazione che c’è, entri in empatia anche con le persone, che è una cosa importante, e poi ci sono dei piccoli break, effettivamente.

C.: Nel Situazionismo c’è un concetto che mi piace tantissimo, il Detournement, l’effetto di spaesamento: noi cerchiamo di ottenerlo, come fosse un piccolo corto circuito che ti dà il tempo di resettarti un attimo.

Adesso che l’hai detto, mi rendo conto che hai descritto come in effetti mi sono sentita al vostro concerto. E poi, ascoltando l’album, vieni messo di fronte al dietro le quinte della realtà che vivi tutti i giorni e che noti, ad esempio le persone a tavola che non parlano tra loro, ma guardano i cellulari.

L.: Questa società è effettivamente in pericolo, possiamo fare solo quello che possiamo, già il fatto di occuparci di certe cose è importante. Nessuno di noi ha la bacchetta magica o la possibilità di poter cambiare nulla, però se ognuno nel suo piccolo facesse qualcosa, sarebbe una grande rivoluzione.

Qual è il vostro prossimo appuntamento?

L.: Dopo la prima uscita live il 26 marzo, l’11 aprile faremo un altro concerto a “Emergenza Live” qui a Torino, si tratta di un contest importante a livello nazionale che esiste da qualche anno: se vinci, ti apre le porte ad altre opportunità, tra cui concerti a Milano e in altre parti d’Italia, e poi vai a Berlino in un altro festival importante. Ma comunque, la vita è un gioco: o giochi oppure soffri, e allora giochiamo perché è la cosa più bella che c’è e l’unica cosa che ci rimane, cercare di trasformare le cose.

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