Mentre le elezioni indiane erano già in corso – si sono svolte, infatti, lungo sette settimane, dal 19 aprile al 1° giugno – le previsioni del mondo intero attribuivano ancora la maggioranza assoluta al partito del primo ministro Narendra Modi, il Bharatiya Janata Party (Partito del popolo indiano), interrogandosi se questa volta, dopo due elezioni vittoriose, avrebbe potuto raggiungere l’ampia maggioranza che gli avrebbe permesso di modificare la costituzione.
I risultati, come spesso accade nelle democrazie, per quanto imperfette e sotto attacco possano essere, hanno smentito le previsioni e il BJP di Modi non ha ottenuto nemmeno la maggioranza assoluta dei seggi, come accaduto in precedenza, perdendone ben 63 e concedendo al Congresso nazionale indiano, il partito guidato da Rahul Gandhi, l’ultimo erede di una dinastia che ha caratterizzato la storia dell’India democratica (i suoi successi e i suoi fallimenti), 99 seggi, di cui 47 in più del passato. Modi rimane al potere, con altri partiti, ma con una maggioranza scarsa e non schiacciante in parlamento. In gennaio, quando sembrava proiettato verso una nuova vittoria, aveva iniziato la campagna elettorale con un gesto simbolico forte e di rottura: ha inaugurato un tempio hindu a Ayodhya, dove nel 1992 era stato distrutta con violenza (e con duemila morti) la moschea Babri Masjid, perché ritenuta edificata nel luogo di nascita del dio Rama. Questo nuovo tempio a lui dedicato – chiamato da molti il Vaticano induista – era per Modi la vittoria di quella ideologia Hindutva (ideologia ipernazionalista, dal neologismo creato negli anni ’20 del secolo scorso dal bramino Savarkar, fanatico filofascista che vedeva ogni presenza esterna all’induismo nazionalista come nemica) con cui aveva spostato la più grande democrazia del mondo su posizioni nazionaliste e sovraniste, dando spazio al fanatismo religioso e a un acceso anti-islamismo.
A votare sono stati oltre 640 milioni di elettori – per le elezioni dell’8-9 giugno gli elettori europei saranno 359 milioni – che pur apprezzando lo sviluppo economico e tecnologico del paese nel decennio di Modi non hanno dimenticato che un potere eccessivo, in democrazia, ha sempre bisogno di essere limitato e controllato. Un risultato positivo, in un mondo che sembrava voler premiare sempre il sovranismo populista, e che ci auguriamo di buon auspicio per le prossime grandi sfide che in Europa e negli Stati Uniti dovranno ridisegnare i rapporti di forza tra i partiti, tra quelli più democratici e quelli che lo sono meno e vorrebbero orientarsi verso quel modello contraddittorio ma purtroppo esistente di «democrazia illiberale» che in Europa è stato sconfitto da poco in Polonia ma continua a essere invece egemone in Ungheria.