di Agostino Forgione
Quando si pensa agli effetti causati dei vari conflitti nel mondo i primi pensieri che sopraggiungono, normalmente, riguardano le conseguenze umanitarie. Le immagini e i racconti che ci arrivano dai media, ponendo l’accento per lo più sulla morte e sulla distruzione, stimolano la nostra empatia e ci portano a non considerare che una guerra causa molto più che morte. In questo “molto più” si inscrivono i danni ambientali che, sebbene spesso siano più che ingenti, generalmente passano in second’ordine. Basta fare mente locale delle più o meno recenti edizioni dei vari telegiornali per constatare come, nel più dei casi, il tema venga bellamente ignorato e relegato ad un ambito maggiormente tecnocratico.
Inquinamento atmosferico, del suolo e delle acque: queste le tre forme di danneggiamento ambientale che i conflitti bellici scatenano, sia nel breve che nel lungo termine. La lora causa può dipendere sia dalle operazioni militari in sé ma anche dagli effetti che queste provocano. Prendendo in esame il conflitto russo-ucraino, emerge come allo scorso aprile il 20% delle industrie chimiche ucraine sia stato danneggiato. È difficile stimare i danni ambientali che ciò ha comportato, ma il danneggiamento di grandi impianti legati la produzione di concimi (settore assai sviluppato nel Paese) desta parecchio timore.
Anche la distruzione degli edifici ha significative ripercussioni sulla salute umana e non, per via del rilascio costante di polveri sottili che, trasportate dal vento, possono percorrere lunghissime distanze. E poi ci sono i metalli pesanti, derivanti in gran parte dai bossoli delle munizioni e dai resti delle bombe, uno di questi il tristemente noto uranio impoverito.
Ponderare il preciso impatto ambientale di un conflitto è sforzo arduo e probabilmente impossibile. Tuttavia, un recente report dal titolo “Climate damage caused by Russia’s war”, diffuso dalla Fondazione europea per il clima con la collaborazione del Ministero della protezione ambientale e delle risorse naturali ucraino, ci ha provato. Nel documento, presentato lo scorso dicembre, viene esaminato l’impatto della guerra in Ucraina dal febbraio del 2022 fino al primo settembre 2023, per un totale di 555 giorni.
Il dossier considera esclusivamente le emissioni di anidride carbonica e altri gas serra, escludendo tutte le altre forme di inquinamento.
In totale, il conflitto ha causato il rilascio di 150 milioni di tonnellate di tali gas. Per comprendere la grandezza di tale dato basta confrontarlo con le emissioni annuali dei paesi dell’Unione Europea. Esso risulta essere 3 volte superiore quella del Portogallo, 6 quella della Lituania e di poco inferiore quello dell’Olanda. Per quanto sia un esercizio fine a sé stesso, applicando i costi medi relativi lo shadow ban price – parametro grazie al quale le aziende ponderano economicamente i danni ambientali causati dalla loro attività – il bilancio ammonta a 9,6 miliardi di dollari.
È curioso notare come solo il 25% di questo sia imputabile alle attività belliche in sé. Gli incedi scoppiati nelle vicinanze delle linee di fuoco sono causa di un altro 15% del totale, ma l’impatto più significato è legato ai costi di ricostruzione delle città. Come dichiarato dalla Nazioni Unite il settore edilizio, infatti, è responsabile del 37% delle emissioni di gas serra globali e ricostruire le città ucraine avrà un impatto stimabile in 54 milioni di tonnellate di co2. Prendendo in esame le emissioni delle attività belliche, il 25% è causato dal consumo di carburante russo e il 7% da quello ucraino.
Dati della stessa natura arrivano da un recente studio dal titolo “A Multitemporal Snapshot of Greenhouse Gas Emissions from the Israel-Gaza Conflict”, che analizzza il recente conflitto israelo-palestinese. I dati, che parimente prendono in esame le emissioni di gas serra relativi i primi 60 giorni di guerra, stimano la loro entità in 281mila tonnellate di c02. Dato significativo, il 99% di esse è causato dall’esercito israeliano. Come bruciare 150mila tonnellate di carbone.
L’impatto dei razzi di Hamas è quantificato a 713 tonnellate di c02, quello di artiglieria e bombe israeliane a circa 20mila tonnellate. 60 giorni di guerra che hanno avuto pressappoco lo stesso impatto ambientale annuale, sempre circa le emissioni di gas serra, della Repubblica Centrafricana.
In conclusione, ridurre la nostra impronta ambientale è un imperativo a cui non possiamo sfuggire. Per quanto sia impossibile eliminarla completamente, essendo connaturata persino alle nostre attività più basilari come accendere un falò, dobbiamo assolutamente cercare di tagliare le emissioni ovviabili.
La domanda, dalle tinte filosofiche e sociologiche, sorge dunque spontanea: è possibile ipotizzare un mondo senza guerre e senza il loro inquinamento?