Figura unica nel mondo artistico statunitense, prima superstar nera del country, Charley Pride ci ha lasciato all’età di 86 anni per complicazioni legate al Covid-19. Nato nel 1934, figlio di un mezzadro del Mississippi, Pride iniziò la sua carriera nel bel mezzo delle lotte razziali degli anni Sessanta, e si affermò in un genere musicale tipica espressione popolare degli stati del sud e classicamente rappresentato da folksinger bianchi, fino a diventarne uno degli interpreti di maggior successo, tanto da piazzare ben 52 dischi nella Top Ten Country dal 1966 al 1987. La portata del suo successo è testimoniata da un dato: fu secondo solo ad Elvis Presley per numero di vendite di dischi della RCA, l’etichetta con la quale incise per trent’anni. Fu il primo artista di colore ad apparire al Grand Ole Opry, celeberrimo programma radiofonico settimanale di musica country e concerti, trasmesso dal vivo sulla radio WSM di Nashville (Tennessee) ogni venerdì e sabato sera (da marzo a dicembre anche il martedì), il più antico e ininterrotto programma radiofonico degli Stati Uniti, in onda dal 5 ottobre 1925.
In singoli come “Is Anybody Goin’ to San Antone” (1970) e “Kiss an Angel Good Mornin’” (1971) – fra i 29 pezzi che raggiunsero il primo posto in classifica – il musicista di Siedge seppe unire l’uso della strumentazione tradizionale con arrangiamenti moderni e sofisticati. A rendere irresistibile la sua musica era un mix di elementi assolutamente originale: la profonda voce baritonale, l’orecchio innato per la melodia, l’affabilità del tratto, la spiccata fotogenicità. Ovviamente il suo essere nero gli causò, soprattutto all’inizio della carriera, non poche difficoltà, tanto più in un ambito artistico dominato dai WASP: la stessa casa discografica non accludeva le sue foto ai dischi promozionali inviati alle radio e ai giornali, celando così l’identità del cantante. E in seguito, quando cominciò ad esibirsi in pubblico, dovette subire il paternalismo e l’ironia dei presentatori, che si riferivano a lui come a “un buon negro”, tanto che, per alleggerire l’atmosfera durante i concerti, era il primo a scherzare sulla sua “perenne abbronzatura”.
Malgrado questi contrastati esordi, Pride è riuscito a conquistarsi un posto di primo piano sulla scena musicale statunitense, tanto da divenire fonte di ispirazione per numerosi folksinger successivi, tra i quali spicca il cantautore afroamericano Darius Rucker, anch’egli incontrastata star del country, che rivendica al maestro un ruolo fondamentale non solo in campo artistico ma anche in quello civile: “Nessun’altra persona di colore ha mai fatto ciò che ha fatto lui”, ha dichiarato Rucker in un documentario dedicato a Pride. Il quale, con l’umiltà che contraddistingue i grandi uomini, non si è mai attribuito particolari meriti, ma non ha nascosto la propria soddisfazione nel constatare che, anche grazie alla sua musica, si è compiuto qualche passo in avanti sulla via dell’integrazione. Ne sapeva qualcosa lui, che a quattordici anni aveva speso i risparmi messi da parte raccogliendo cotone per comprare la sua prima chitarra, una Roebuck da dieci dollari, come si legge nella sua coinvolgente autobiografia “Pride: The Charley Pride Story”, scritta nel 1994 con Jim Henderson, e da cui traspare come i pregiudizi razziali siano sempre stati motivo di enormi difficolta.
In gioventù coltivò il sogno di diventare un campione di baseball, militando in varie squadre, finché una serie di incidenti e, soprattutto, la passione per la musica country non gli resero chiara la strada da percorrere.
Dal 1965 – anno del suo primo contratto discografico – ha inanellato una serie ininterrotta di grandi successi, che gli hanno fruttato numerosi riconoscimenti, tra cui l’inserimento nella Country Music Hall of Fame e quattro Grammy Award, l’ultimo alla carriera, nel 2017. Una straordinaria carriera terminata drammaticamente lo scorso novembre, quando, forse durante un concerto, ha contratto il maledetto virus che lo ha strappato all’ammirazione dei fan e alla stima di quanti ne hanno apprezzato l’indiscusso talento, e che mai ne dimenticheranno le grandi doti umane. R.I.P., Charley.