di Giuseppe Costigliola
Ce lo ricorderemo, questo infame 2020. Stamane ci siamo svegliati con la notizia di un’altra tremenda scomparsa, il pianista, compositore e direttore d’orchestra Ezio Bosso, portatoci via da una malattia neurodegenerativa ad appena 48 anni (clicca qui per la notizia della sua morte).
Colpita da questa perdita non è soltanto la comunità degli artisti, ma l’umanità tutta. Perché Ezio Bosso non era “soltanto” un musicista, una persona di rara sensibilità e intelligenza: era uno di quegli uomini che amano la vita in ogni sua forma, anche in quella perversa della malattia, che lo aveva colpito quasi dieci anni fa, quando gli annunciarono che soffriva di un’incurabile forma di patologia neurodegenerativa.
E amando la vita, Ezio amava l’arte, la musica – soprattutto amava gli altri, appassionatamente, e questo rende la sua perdita ancora più grave in quest’epoca di odio diffuso verso tutto e tutti: di tali esempi incarnati di amore per l’umanità, persone che sanno indicarci concretamente l’unica via che possiamo seguire per sopravvivere in un mondo che si configura sempre più in un gigantesco manicomio, abbiamo un bisogno disperato.
Bosso aveva peraltro compiuto una piccola grande rivoluzione in tv arrivando a un pubblico che lo ha conosciuto solo attraverso il piccolo schermo. A Sanremo 2016 (clicca qui per la sua esibizione) irruppe con un’accorata esibizione al piano, con parole toccanti e commosse e seppe evitare ogni pietismo. Ancor più ha stupito nel giugno dell’anno scorso su Rai3 con la serata “Che storia è la musica”, dove ha sviscerato il suo amore per Beethoven con la Quinta e la Settima sinfonia: quello che pareva un azzarto riuscì tanto bene da spingere la Rai a fare una nuova serata, per Natale, stavolta su Cajkovksij. Aveva creato un format.
“Sono un uomo con una disabilità evidente in mezzo a tanti uomini con disabilità che non si vedono” ebbe a dichiarare. Aveva ben chiare le nostre disabilità, più gravi della sua: la mancanza di amore, di comprensione, di solidarietà, la devastante perdita di umanità che segna questo nostro tempo, come il caso di Silvia Romano sta lì a ricordarci, se pure ce ne fosse bisogno.
“La musica ci cambia la vita e ci salva” disse una volta, davanti a milioni di telespettatori. “La bacchetta mi aiuta a mascherare il dolore e non è una cosa da poco”. No, non è cosa da poco. Lui sapeva bene che il dolore è l’inalienabile compagno del nostro accidentato cammino nella vita, sapeva che questo indesiderato ospite è in grado di dare significato alle nostre esistenze. Ezio riponeva questo significato nella creatività, nell’amore per gli altri: siamo tutti accomunati dal dolore.
“Le persone che vengono ospiti da me” disse in quella stessa serata alla tv, “entrano da personaggi e escono da persone”. Ecco, in questa meravigliosa metamorfosi c’è tutto Ezio Bosso: da maschere, a uomini e donne. Da numeri, a persone. Da individui anonimi, a esseri unici e insostituibili. È un esempio di straordinario umanesimo, in un’era amorfa e inconcludente di macchine virtuali e di intelligenze artificiali, di robotici consumatori e distruttori di risorse.
L’entusiasmo che da Ezio promanava per la vita e per gli altri aveva un che di contagioso – e ci piace usare questo termine così abusato in questo periodo: al contagio della malattia dobbiamo opporre il contagio dell’amore. “Il nostro entusiasmo, la nostra voglia di fare” disse, “alla fine diventa un contagio. Mi auguro una pandemia di voglia di fare”. E ancora: “L’arte e la bellezza sono contagiose: così cambieremo il mondo”.
Non sono sterili proclami, fughe nell’onirico per difendersi dalle brutture dell’esistenza. Quello di Ezio Bosso non è soltanto un esemplare caso di resilienza: è molto di più. Lui ci ha dimostrato che l’amore per la vita e per il prossimo sono un’energia vivifica, un’arma in grado di modificare il mondo, di renderlo più “umano”, finalmente vivibile. Credo sia uno dei più alti insegnamenti che si possono trarre dalla parabola esistenziale di Ezio Bosso.
Come la lotta al pregiudizio, agli stolti luoghi comuni che ci avvelenano le menti, la lotta alle barriere sociali, che artificiosamente rendono gli esseri umani diversi: “Ho combattuto il pregiudizio. Fin da bambino ho lottato col fatto che un povero non può fare il direttore d’orchestra, perché il figlio di un operaio deve fare l’operaio, così è stato detto a mio padre”. Perché l’amore, la passione, sono anche fatica, duro lavoro: “Credere nella musica non è unicamente un processo di allegria ma è un processo faticoso che, a volte, ti consuma. Lasciarsi guidare dalla musica è anche un gesto di umiltà, riconosci la grandezza dell’altro e diventi grande insieme a lui”.
Immune dal narcisismo. Ezio Bosso era anche un uomo che si distingueva in quanto immune da una delle peggiori malattie che avvelenano questo tempo, il narcisismo, il solipsismo che porta al disprezzo altrui, cui opponeva una sanissima autoironia, come dimostrò rispondendo alla satira del sito spinoza.it, che l’aveva dileggiato per la capigliatura: “Potrei mai prendermi sul serio? Io sono già così, come mi vedete. Se facessi il tronfio, sai che noia”. Lui sapeva bene che “essere leggeri, prendersi in giro è una cosa seria. Se non ci si prende in giro, non si può essere seri”.
Anche all’ultimo, quando si è trovato assediato dalla malattia, impossibilitato ad esibirsi, rinchiuso come tutti nella propria casa a causa della pandemia, con la sua compagna e i suoi adorati cani, Ezio non si è arreso. Studiava partiture e componeva, leggeva libri di storia, lottava con le dita private di forza sull’atarassica tastiera. E proseguiva nel suo impegno sociale: soltanto due giorni fa aveva rilasciato un’intervista a Rainews, sulla ripartenza del settore artistico con l’emergenza Coronavirus. Ed era stato molto chiaro: la musica è un bisogno primario dell’uomo, dunque è necessario un progetto che parta da questa consapevolezza. Senza giri di parole, come sempre.
Nella riflessione sull’inquietante esperienza che stiamo vivendo a causa del virus, aveva avuto parole d’una saggezza profonda, che spiccano nel mare di idiozie che ci annega: “Diventare migliori è una scelta, non una conseguenza, richiede un impegno forte con se stessi. Star chiusi in casa non basta. Questa retorica vuota che ci circonda è insopportabile. Così come tanta cattiveria sparsa nel web, l’ottuso complottismo di chi vuole un colpevole a ogni costo”.
Per chi volesse approfondire la sua conoscenza umana, la sua caratura d’artista, la notevole carriera, c’è una splendida intervista che rilasciò a Rolling Stone quattro anni fa, e i tanti contributi che stanno uscendo in rete. A me piace ricordarlo mentre dirigeva gli amati Mozart e Čajkovskij, con il corpo che sprizzava passione e gioia di vivere, il sorriso candido che irradiava una letizia contagiosa, mandando baci: Ezio Bosso sapeva che l’amore, il sentimento di reciproca solidarietà di cui noi umani dobbiamo riappropriarci, è forse l’unica rivoluzione in grado di rendere questo mondo un’oasi vivibile, e non un inferno senza scampo.
E con una sua frase, d’una saggezza eterna: “Per me la morte non esiste, è una parte della vita”.