Marco Buttafuoco
Si può commemorare Billie Holiday, Lady Day, senza incappare nel già detto, nella retorica dell’artista “maudite”, in quella della vittima di una società crudele e razzista, dell’ identificazione fra vita e arte?
Cosa rimane di lei a sessant’anni esatti dalla sua morte, avvenuta in un ospedale di New York il 17 luglio 1959, dove era stata ricoverata per una crisi epatica, dovuta all’abuso di alcool e di sostanze stupefacenti, piantonata dalla polizia che da tempo l’aveva nel mirino per il suo coinvolgimento in storie di droga? Cosa ricordare di quella bellissima, nonostante la salute compromessa, donna di quarantaquattro anni, la cui voce esausta, incrinata al limite del cedimento, era ancora capace di emozionare, come nel suo ultimo disco, Lady in Satin. Su cosa mettere l’accento? Sul suo passato di ex prostituta, sulla sua famiglia ”irregolare”, sullo stupro subito a dodici anni? Sul successo che la portò ad essere una delle protagoniste della vita notturna di Harlem. Sulle sue storie con Benny Goodman, Orson Welles, o con l’attrice Tallulah Bankhead che per aiutarla arrivò addirittura a chiedere (inutilmente) a J. Edgard Hoover, potentissimo e temuto capo della Fbi, di usare un occhio di riguardo per l’amica, ormai irrimediabilmente invischiata con la droga? Il Bureau teneva d’occhio costantemente Billie Holiday. Dopo la fallimentare esperienza del proibizionismo alcolico, conclusa nel 1933, la polizia e il puritanesimo americani avevano rivolto le loro attenzioni al fenomeno delle droghe. La proibizione dell’uso di marijuana considerata addirittura la più pericolosa fra le sostanze proibite, entrò in vigore dal 1937 e le autorità cominciarono da allora a rendere la vita difficile a persone come Lady Day, bersagli ideali per la loro notorietà e per la loro esposizione mediatica.
Il declino, gli arresti, i fischi, il tour italiano
Anche il declino dell’artista è stato raccontato più e più volte. Gli arresti, l’incrinarsi della voce, la fallimentare tournee italiana del 1958, aggregata a una sorta di compagnia di avanspettacolo, in cui un pubblico che non voleva ascoltare jazz la fischiò sonoramente, la pubblicazione di una biografia controversa (The Lady Sings the Blues), in cui furono sicuramente espunti alcuni capitoli che raccontavano dei suoi rapporti con una parte del jet set newyorkese, fanno parte di una bibliografia copiosa.
Anche sul canto di Billie è già stato detto tutto, o quasi (parole definitive sull’arte, per fortuna, non ce ne sono). Eric J. Hobsbawm, nel suo necrologio apparso su “The News Statesman and Nation” (lo scritto è contenuto nella raccolta Gente non Comune, RCS 1998 disponibile anche in epub) pochi mesi dopo la morte scrisse: “Anche se cantava in modo incomparabile una versione da cabaret del blues, il suo idioma naturale era la canzone popolare. Il suo ineguagliabile risultato fu quello di averla tramutata in un’espressione genuina delle passioni più grandi”, parlando di “una voce irresistibile, sottile, ghiaiosa, il cui umore naturale era un accoglimento voluttuoso e non rassegnato delle pene d’amore”.
Portava dentro di sé il blues
Billie conosceva il blues e lo amava, lo portava dentro come eredità della gente di colore, anche se, come dice giustamente il grande storico, il suo approccio è alquanto diverso da quello delle grandi cantanti che l’avevano preceduta, Billie Smith, su tutte. Uno dei pochi punti luminosi, niente di più di un lampo, è un video del 1957, che la vede in uno studio a New York, circondata, qualcuno dice protetta, da una schiera di grandi del jazz, tutti amici suoi, impegnata a cantare un blues scritto da lei stessa, Fine and Mellow.
Strange Fruit fu scritta da un comunista
Dovendo individuare un punto di focalizzazione, qualcosa con cui sigillare la mia Billie Holiday, sceglierei però Strange Fruit, canzone scritta da Abel Meeropol, un comunista americano di origini russo ebraiche che la propose a Lady Day, nell’aprile del 1939. La canzone fu ispirata dalla fotografia di uno dei tanti linciaggi di neri che avvenivano nel Sud degli Stati Uniti. La Holiday, già cantante di un certo nome accettò subito di cantarla e la eseguì sempre, in ogni circostanza, fino agli ultimi giorni (molto toccante la sua interpretazione a Londra, pochi mesi prima della morte), anche in situazioni in cui si potevano generare tensioni con il pubblico bianco. L’editore tagliò dal manoscritto dell’autobiografia, che l’artista avrebbe voluto intitolare The Bitter Crop, il raccolto amaro, citando proprio un verso della canzone, i passaggi che raccontavano le difficoltà che Strange Fruit creava in alcune situazioni. Secondo la cantante l’ostilità dell’Fbi derivava dal suo ostinarsi ad eseguire la canzone in ogni situazione, ma tale assunto non sembra provato.
Con Billie il jazz viene accettato come arte
Il jazz con Billie Holiday (ma non solo) viene anche accettato come arte. Non è più solamente, musica da ballo, come generalmente era vista. anche dalla sinistra americana. È anche impegno sociale. Strange Fruit, stranamente, non è però mai entrata nel repertorio della “canzone politica”. Troppo amara forse, troppo poco inno.
La cantante di Baltimora non ebbe buona stampa.
È comunque, il mio, un approccio personale. Non va dimenticato come la cantante di Baltimora non abbia avuto universale buona stampa fra i cultori di cose jazzistiche. Il suo canto, spesso doloroso, “combinazione di amarezza e di sottomissione fisica, come di qualcuno che giaccia immobile a guardare mentre gli amputano le gambe” (Hobsbawm) suscitò anche avversione.
Uno dei pionieri del jazz italiano, il contrabbassista Carlo Loffredo, intitolò nel 2008 la sua autobiografia Billie Holiday, che palle definendo “miagolante e iettatoria” la vocalità della cantante di Baltimora.
Non so quanto sia ancora condiviso un punto di vista tanto urticante. Forse in tempi di disimpegno e vacuità social, più di quanto possa apparire. Non è certo quel libro che va letto per conoscere ( o tornare a conoscere) Billie. La bibliografia su di lei è, come detto, vastissima, anche in italiano. Forse, però, il controverso la Signora Canta il Blues è ancora la base, anche se l’edizione italiana è un po’ datata .