Marco Buttafuoco
Il nome di Ivan Della Mea riporta alla mente il periodo storico, gli anni sessanta settanta e, in cui la sinistra, non solo quella italiana, sembrava destinata a essere definitivamente la forza egemone. Erano gli anni dell’impegno militante, dell’identificazione fra politica e cultura. Anni molto lontani, forse irripetibili, quelli in cui il poeta e cantante raggiunse il culmine della sua popolarità in un pubblico oggi inconcepibilmente vasto. La sua vicenda si concluse nel 2009, quando, nemmeno settantenne, morì in quella Milano di cui fu, pur essendo nato a Lucca da famiglia toscana nel 1940, uno dei più appassionati cantori. A raccontare la sua storia è un libro, La Nave dei Folli, scritto dal cantautore anarchico Alessio Lega, pubblicato da Agenzia X (pagg 374, costo di copertina 16 €).
È un volume, diciamolo subito, molto bello. Ricostruisce senza trionfalismi, senza reducismi, con partecipazione (e talora ironia) l’umana storia di Della Mea e di tanti altri artisti militanti (Giovanna Marini, Giovanna Daffini, Franco Coggiola, Paolo Pietrangeli, Paolo Ciarchi) e tanti altri che egli furono vicini. Personaggi fragili, controversi, alle prese con vite spesso molto complicate, talora drammatiche. Certo, il loro lascito artistico è quanto meno discusso e anche divisivo.
Per la cronaca Alessio Lega ha da poco pubblicato un cd, decisamente di pregio, Nella Corte dell’Arbat, nel quale traduce le canzoni del cantautore russo dissidente Bulat Okudžav, attivo fra il 1960 e il 1985.
È un’opera un po’ particolare, la sua. Non è un saggio e non è una biografia vera e propria.
In effetti, è un po’stratificata. La scrittura si è snodata fra pause e accelerazioni. I primi tre capitoli, quelli che parlano dell’infanzia e della prima giovinezza di Ivan, prima del suo quasi casuale diventare artista, li ho scritti di getto. Sembrano quasi, mi sia permessa l’autogratificazione, un romanzo di Zola. Sono fatti di materia cruda e dolorosa, poiché la sua famiglia era, a dir poco, problematica. Non c’erano problemi di fonti o testimonianze. Ivan aveva raccontato queste vicende già nella sua autobiografia e ne parlava sempre, con una sincerità che sfiorava l’autolesionismo. Poi ho avuto una specie di arresto. Sui suoi esordi e sulla sua attività nel Nuovo Canzoniere Italiano c‘è molta documentazione. I membri del NCI erano fedeli cronisti di se stessi e della loro attività, ma in quella documentazione puntigliosa ho rischiato di perdere il protagonista. Anche sul ’68, anno di svolta anche per lui, la sua autobiografia e i documenti non bastavano. A trarmi d’impaccio sono state le testimonianze, in primis quelle di sua figlia e della a moglie Angela. Testimonianze bellissime e sofferte, così come quelle di tanti militanti, familiari e compagni di viaggio. Qualcuno mi ha rimproverato di aver usato addirittura il pettegolezzo, nella narrazione, e di aver fatto debordare Alessio Lega. Mi fa piacere che lei veda in questo un punto di forza del libro che è in effetti, anche una cronaca, la cronaca della mia ricerca su Ivan, con le sue scoperte, le conferme, le smentite. Certo la narrazione dei suoi primi trent’anni di prevale su quella degli ultimi quaranta, ma è in quel periodo che nasce e si forma il personaggio Della Mea, che non è solo il cantante o il militante, ma è anche l’intellettuale che tenta l’avventura nel cinema, che comincia a scrivere testi per collane di gialli e di fantascienza.
Mi sembra però che la narrazione metta troppo in secondo piano i rapporti con la vicenda musicale, pur tanto ricca degli anni’ settanta. Non trova che i militanti del Nci fossero troppo poco interessati alla musica che usciva dalle radio, dalla realtà dell’epoca, dai cantautori, dallo stesso Bob Dylan?
Ho dato, indubbiamente molta importanza ai testi di Ivan e alle circostanze in cui sono nati, ma credo che nel libro si trovino anche molti riferimenti alla realtà musicale dell’epoca. E indubbiamente vero che Ivan si chiuse talvolta, in maniera del tutto ideologica, alla musica dei suoi tempi. Lui e i compagni del NCI rifiutarono ad esempio la strumentazione elettrica vista, un po’ adornianamente, come uno strumento della barbarie delle classi dominanti. È anche vero però che non era il solo. Basti pensare alla polemica feroce che si scatenò contro il canzoniere del Lazio quando fece la scelta di usare le chitarre elettriche. E lo stesso Pete Seeger si infuriò contro Bob Dylan, per lo stesso motivo, durante il celebre Festival di Newport, minacciando addirittura di tagliargli i cavi della strumentazione con un’accetta. C’era un rapporto contrastante fra Ivan e la musica che si ascoltava allora. Uno dei suoi più celebri pezzi politici “la ballata dell’Ardizzone” è, in fin dei conti, un rock and roll. Della Mea non viveva in un mondo chiuso, era cresciuto in quartieri popolari. Era un giovane del suo tempo, assorbiva anche lui i suoni che sentiva intorno a lui. E poi si dovrebbero anche tenere nel dovuto conto le condizioni ambientali, spesso avventurose, in cui si svolgevano i concerti del NCI: microfoni precari, audio pessimo, bisognava suonare a volume alto e farsi capire, magari mentre intorno, a qualche decina di metri, operava uno stand gastronomico. La loro era una dimensione del tutto diversa del fare musica. Significativo era però il rifiuto che opponevano al modo di porsi dei cantautori alla De André, al loro senso della misura, al sussurrare anche quando si poteva, o doveva gridare. Si disinteressavano anche alla canzone francese. Ma quando De Gregori pubblicò il celebre, fin troppo, disco con la Marini, Ivan si affrettò a fare ammenda delle sue precedenti critiche e lo arruolò, fin troppo generosamente, fra gli artisti impegnati.
Eppure anche la stessa Giovanna Marini, in una conversazione che appare nel libro appare scettica sul valore musicale di certe proposte …
Sì, certo. Io stesso penso che il miglior Della Mea si ritrovi non tanto in O cara moglie, ma in Io so che un giorno, o nell’onirico La nave dei folli o Sudadio Giudabestia. Ma non stabilirei una separazione netta fra buona musica e musica politica. Per essere più chiari, Contessa è una canzone ambivalente. È inno di piazza, nella strofa è anche cabaret raffinato. I Morti di Reggio Emilia è ispirata musicalmente da una pagina di Modest Mussorgsky. Paolo Ciarchi era un musicista molto aperto alla sperimentazione. E poi molte di quelle canzoni di lotta sono state tanto ascoltate da far perdere il gusto del nuovo che potevano avere. Di De André tutti ricordiamo Marinella o Bocca di Rosa, non tanto Anime Salve o Creuza De Ma’, tanto superiori musicalmente. Lo stesso avviene per la canzone politica di allora Che comunque mantiene intatto il suo valore poetico, di estraneità alle logiche commerciali. Le canzoni milanese di Ivan sono ancora belle, Io so che un giorno narra benissimo, e in modo preveggente l’alienazione che è la cifra fondamentale dei nostri tempi.
Proviamo, in poche righe, a fare un bilancio. Cosa ci ha lasciato l’equipaggio de La Nave dei Folli? E qual è il panorama odierno per chi, come lei opera al di fuori delle logiche tradizionali?
Tutti quelli che fanno ricerca e tentano di battere strade nuove sono oggi marginali, fuori mercato. Il grande Dio dei nostri tempi può tollerarti, ma anche strangolarti in qualsiasi momento. Puoi suonare jazz, musica popolare o elettronica. Siamo tutti di nicchia, se non tu non suoni mainstream commerciale. Oggi, fra l’altro, non esiste più quel circuito di Case del Popolo, sezioni di Partito, Feste politiche che ti davano la possibilità di esibirti e di vendere dischi. Mancano spazi alternativi e istituzioni di riferimento. Tutto è strappato, quotidianamente, ai soldi pubblici, sempre meno e. Si vive alla giornata, senza futuro. Eppure battere ancora quella strada, percorsa decenni fa da Ivan e dai suoi compagni è ancora necessario. Vede, oggi la gente esce di casa per sentire musica che ha già sentito, per ascoltare cover. Io stesso ne propongo moltissime (cantautori francesi, De André etc.). Sembra che l’unico futuro dell’arte dei suoni sia la riproposizione, il campionamento. Prima o poi non ci saranno più idee nuove o, saranno insostenibili economicamente. L’unica soluzione è battere la strada della ricerca di storie, magari perdute nelle pieghe di una società che mi appare sempre più alienante e opprimente. È in queste storie che trovo il coraggio di andare avanti. La musica politica è stata la prima suonata dal vivo in Italia. Prima i musicisti si esibivano nei festival o in televisione. Tornando indietro, forse, qualcosa di nuovo troveremo.