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Mario Incudine: “Modugno è stato il grande innovatore della canzone italiana”

Il folk singer e teatrante parla del cantante, di Sicilia e di Camilleri in occasione di “Da sud a sud”, spettacolo sui brani di Modugno con la regia di Ovadia e Cutino

Mario Incudine: “Modugno è stato il grande innovatore della canzone italiana”
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8 Giugno 2019 - 09.24


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di Marco Buttafuoco

“Da sud a sud “ è il titolo dello spettacolo che Mario Incudine presenterà, con la regia di Moni Ovadia e Giuseppe Cutino e con testi di Sabrina Petyx, a Milano, Teatro Elfo Puccini, dal 10 al 14 giugno. Il progetto sarà impegnato su Domenico Modugno e le sue canzoni “siciliane”, un corpus forse oggi un po’ dimenticato nella produzione di Mister Volare. Mario Incudine, folk singer e uomo di teatro siciliano, ritiene invece fondamentale quel repertorio.
Modugno è una pietra miliare della canzone italiana di cui fu un innovatore in termini formali e di linguaggio. E all’origine della vicenda del teatro canzone, è stato il primo a togliere alla taranta il suo carattere terapeutico, magico, etnografico e a interpretarla come musica da ballo. Pizzica Po è del 1963. È da quel brano che nascono le notti della Taranta di Melpignano. Definirlo un anticipatore è quasi riduttivo. Prima di Vecchio Frac, che si può definire la sua prima canzone italiana, Mimmo aveva inciso una serie di finti brani siciliani. Finti perché in realtà erano scritti nel dialetto Salentino, la sua “lingua madre”; un dialetto che somiglia moltissimo a quelli siciliani. Sono bozzetti, o meglio ancora, piccole storie compiute che hanno una loro potente logica poetica. Molte sono dedicate agli animali, attraverso i quali sono raccontate vicende umane, attingendo a una sapienza antica. Da questa vena creativa nascono canzoni come Lu grillu e la luna, storia d’amore surreale, in cui il primo scopre la seconda in una pozza d’acqua e, innamoratosi follemente, annega per raggiungerla. O Lu Cavaddu cecu de la minera, vicenda tristissima di un animale che ha perso la vista perché costretto a lavorare in miniera, senza mai vedere la luce, metafora di tanti uomini, e bambini, che conobbero una sorte analoga. Per non parlare della più celebre, Lu Pisci Spada, una sorta di Giulietta e Romeo del mondo animale. Canzoni in un dialetto ibrido, basate su materiali musicali eterogenei che noi interpreteremo in scena utilizzando i testi di Sabrina come elemento di congiunzione, come filo d’Arianna del nostro viaggio da Sud a Sud. Si racconta che fu Frank Sinatra a consigliare a Modugno questa veste siciliana, ma forse non è importante. Mimmo dimostrò allora la sua apertura mentale, viaggiando liberamente fra il suo mondo e la Sicilia, attingendo a memorie diverse.

Memorie, identità. Oggi si usano molto a proposito o a sproposito questi vocaboli, spesso in termini di esclusione. Lei è un cultore della sicilianità. Come potrebbe definire questo concetto, sempre che sia definibile?
La parola chiave per entrare nella sicilianitudine è stratificazione. Noi, anche fisicamente, siamo e appariamo figli di tutte quelle genti che abitarono la nostra isola. Arabi, greci, normanni, irlandesi, spagnoli. Ci sono tanti siciliani biondi e con gli occhi azzurri. Queste tracce si trovano nei nostri dialetti, nella nostra musica e nella panoplia di strumenti musicali su cui essa si basa, nella nostra gastronomia, tanto ricca ed elaborata, un poco barocca. Il dolce tipico palermitano è la torta dei sette veli, nella quale sette strati di cioccolato di origine diversa sono sovrapposti e fusi. Quindi abbiamo fatto nostra anche l’arte del pugliese Modugno, che è diventata parte del nostro patrimonio. Allo stesso modo ci siamo sparsi per il mondo. I musicisti delle bande siciliane di New Orleans insegnarono alcuni loro stilemi ai neri e ai creoli, e da loro impararono altro: il jazz nasce anche da questi incontri. Mi piace pensare che Frank Zappa abbia portato la sua memoria etnica nella sua musica composita e innovativa. Di più, citando Gesualdo Bufalino direi che esiste nei siciliani una doppia dimensione d’insularità: quella geografica e quella individuale. Tutte le grandi vicende storiche sono somma di tante esperienze individuali. Tutti gli isolani hanno questa duplice anima; devono aprirsi al mondo, vivono anche una dimensione loro, molto particolare. Salvare l’identità, curare le radici non vuol dire chiudersi al diverso. Salvare l’identità è invece rifiutare gli stereotipi odiosi che sono diffusi sulla Sicilia. Mi è capitato di vedere esposta in un mercato di Taormina una maglietta con una scritta che definirei oscena ”Sono siciliano: non vedo, non sento, non parlo”, con tanto d’immagine delle tre scimmiette. Qui bisogna difendersi: noi siciliani vediamo, sentiamo e parliamo.

Lei ha collaborato con Andrea Camilleri, l’inventore di una lingua “neo siciliana”. Come giudica questo aspetto della produzione del padre di Montalbano?
È un’operazione culturale raffinatissima. Camilleri ha creato un nuovo codice di comunicazione, mettendo insieme frammenti e memorie di tutti i dialetti, diversissimi, che si parlano in Sicilia, soprattutto in quella meridionale, da Ragusa a Trapani. Una lingua letteraria eppure reale. Oggi anche a Trieste si usa il termine “scassare i cabasisi”, taliare è compreso ovunque. Vede? La lingua, la cultura non sono organismi imbalsamati, tutto cambia e tutto si stratifica. Quello che non tollero, invece, è il tradimento dello spirito di un popolo. Non si può aggiungere a Vitti Na Crozza uno stupido ritornello. Si tratta di una canzone tragica. Il morto senza tocchi di campana è un minatore, e i minatori nemmeno avevano diritto, quando morivano, al funerale cristiano. Un’altra strofa parala del sentimento doloroso degli anni che passano, un’altra dello strazio di lasciare il proprio paese. Trallallero non c’entra niente, è con sciocchezze simili che si danneggiano le radici.

Non teme che il mondo globalizzato uccida questa meravigliosa vicenda d’incontri e memorie?
Nessuno strumento elettronico darà mai il piacere di suonare un tamburo antico o una zampogna fatta con pelli di capra. Nessun emoticon ucciderà mai la poesia perché. Semplicemente, è un bisogno umano. Abbiamo bisogno dei tragici greci, di Omero, di Dante perché hanno già raccontato tutte le storie e il fondo, anche quello scuro, delle vicende umane. Abbiamo bisogno di un rapporto fisico con la musica che nessun sintetizzatore potrà mai dare. Vedo che molti giovani cominciano ad amare i tamburi antichi. Non potremo andare avanti all’infinito con la virtualità.

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