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Il mio ricordo di Lucio Battisti e delle sue immortali Emozioni

Uno dei protagonisti della canzone italiana del secolo appena trascorso e un personaggio che ha lasciato un segno profondo nella nostra musica

Il mio ricordo di Lucio Battisti e delle sue immortali Emozioni
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Giancarlo Governi Modifica articolo

9 Settembre 2018 - 12.32


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Lucio Battisti è stato senza dubbio uno dei protagonisti della canzone italiana del secolo appena trascorso e un personaggio che ha lasciato un segno profondo nella nostra musica leggera,  forse secondo solo a Domenico Modugno. La sua storia riassume infatti la storia della canzone italiana tra gli anni Sessanta e Settanta, quando il giovane cantautore è sempre in vetta alle classifiche discografiche. Basti pensare che nel 1970 le canzoni del disco Emozioni restano ai primi posti per ben 44 settimane e il primato si ripete nel 1971 con Pensieri e parole. E’ un periodo, quello, denso di contrasti sociali e di forti divisioni ideologiche,  eppure i suoi dischi –  venduti a centinaia di migliaia – vengono acquistati da tutti, ascoltati da tutti ed entrano a far parte del patrimonio privato di tutti. Poiché, se «il personale è politico» – come si usa dire in quegli anni – non c’è nessuno che esplori e canti il «personale» più di Battisti. Anche se lui lo fa in maniera nuova, vera, con un linguaggio semplice, senza inutili romanticismi e senza retorica. 

Il giorno dopo la sua scomparsa, scriverà Michele Serra: «Se almeno in queste ore… riuscissimo a parlare di questa comune tenerezza, di questo esserci arresi tutti insieme alla stessa cosa, potremmo imparare qualcosa di più su ciascuno di noi. Nel rimescolo di pensieri che la morte del vecchio ragazzo Lucio suscita, nessuno può davvero orientarsi se non accetta di inchinarsi ai sentimenti più banali, banali come le canzonette».

Quando comincia ad apparire sulla scena e in televisione, Lucio Battisti si fa conoscere dal pubblico anche per il suo volto quasi imberbe, i capelli ricci che gli circondano la testa e le labbra infantili. Gli studiosi dei fenomeni sociali legati alle canzoni suggeriscono che nel cantare, quel ragazzo mostra timidezza e sofferenza, mentre la sua voce, tutta in falsetto,  un po’ afona e stridula nelle note alte, sembra suggerire difficoltà di crescita e adolescenziale incapacità di inserimento nella vita. 

E la musica? La musica è nuova per le nostre scene: si richiama al Rithym and blues, che in quegli anni sta dominando in Europa, condito con una spruzzata di Lennon e Mc Carthney, ossia della musica dei Beatles. Ma le sue composizioni si segnalano soprattutto per una costruzione ardita, con improvvisi rallentamenti e ritorni di ritmo, con iterazioni che niente hanno a che vedere con la tradizione italiana di strofa-ritornello-inciso, ma al tempo stesso esplodono in ampie volute melodiche che aprono luminosi orizzonti, e sembrano temporali che si placano, e schiarite che calmano il cuore. Come a dire, riprendendo uno dei suoi più celebri motivi… «Tu chiamale, se vuoi, emozioni…». Emozioni musicali, che un grande violinista come Salvatore Accardo non esita a definire quelle di un grande compositore.

Eppure Lucio Battisti non ha fatto alcun conservatorio. E’ un autodidatta,  nato poco a Nord di Roma, a Poggio Bustone, provincia di Rieti, il 5 marzo del 1943, figlio di una casalinga, Dea Battisti, che è il suo cognome da ragazza, e di un impiegato alle imposte di consumo, Alfiero Battisti.

«All’inizio – raccontava Lucio – volevo fare il prete e servivo sempre messa… Poi una volta che facevo casino durante una cerimonia, un prete mi diede uno schiaffo per azzittarmi e cambiai idea. Solo chitarra, da ora in poi».

La sua passione musicale è però ostacolata dal padre, che lo vuole impiegato alla Ibm. Ma Lucio di fare l’impiegato proprio non ne vuole sapere.

Nel 1947, Lucio lascia Poggio Bustone e con la famiglia si trasferisce nella Capitale, dove diventa davvero un chitarrista originale, che trae dallo strumento ritmi e suggestioni vicine al blues e in ogni caso molto personali.

Nel 1965, a Milano, nei corridoi della casa discografica Ricordi, dove aspetta invano di essere ricevuto, Battisti incontra Christine Leroux, una talent-scout francese che racconta: «Quella voce strana, indefinibile, mi diede un fremito. Entrai nella stanza e vidi un ragazzo bruno, dagli occhi scuri. Facemmo amicizia e lo presentai a Mogol»

Nasce così una delle più formidabili coppie di autori della nostra canzone.

Con Mogol le canzoni nascono una dopo l’altra, apparentemente con grande facilità e intensità. E anche in maniera originale da un punto di vista formale, come nel caso di Pensieri e parole, nella quale si snodano quasi parallele ed eseguite dalla stessa voce due diverse linee melodiche,  che rappresentano anche due diversi stati d’animo.

Mogol è il nome d’arte di Giulio Rapetti, classe 1936, uno dei parolieri più attivi e di successo del dopoguerra. Figlio di un produttore discografico della Ricordi, Mogol non disdegna il genere all’italiana, accorato e nostalgico, e lo dimostrano testi come Al di là, vincitore a Sanremo grazie a Luciano Tajoli e Betty Curtis. Né disdegna  quello estivo-demenziale, come «Stessa spiaggia stesso mare». Sostiene inoltre la cosiddetta «linea verde», che punta ai giovani, e nel festival di Sanremo del ’67, l’anno di Tenco, gioca anche sul concetto di rivolta con «La rivoluzione», ma lo fa in maniera equivoca. Si impone tuttavia come autore le cui parole  trovano rispondenza nel linguaggio e nei pensieri dei giovani, anche se non sempre si tratta di capolavori. Con Lucio Battisti dà forse il meglio di sé, anche se i testi iniziali della sua collaborazione col musicista non sono forse dei veri e proprio dei capolavori…

Le canzoni di Battisti raccontano spesso abbandoni e tradimenti laceranti, cui la voce di Lucio conferisce drammaticità e disperazione, sentimenti che paiono lontani da quelli dei milioni di giovani che scendono in piazza in quegli anni turbolenti.

Eppure «nelle Renault 4 dei capelloni come nei juke-box di paese – scrive ancora Michele Serra – nelle feste di liceo o nei lunghi pomeriggi post-scolastici di stracco studio, anche chi sapeva a memoria Contessa e Bocca di rosa… suonava e cantava anche Battisti e comperava i suoi dischi. Nei quadernetti dove i tanti orecchianti annotavano testi e accordi, le sue canzoni non mancavano mai, proprio mai».

La sua popolarità si allarga infatti a macchia d’olio. Una che se ne intende, e cioè Mina, non esita a interpretare le sue canzoni e a dargli l’investitura di interprete e di autore di grande successo. Mina lo chiama al suo fianco per dar vita a quei duetti che resteranno come memorabili antologie nella storia della nostra TV.

Domandano a Lucio Battisti come faccia a restare sempre a galla e di moda e lui risponde che la ragione è perché se ne infischia delle mode. «La gente vuole Battisti e io gli do Battisti», aggiunge. Gli chiedono ancora che cosa senta di rappresentare nella canzone italiana e che cosa ha insegnato a quelli che sono venuti dopo di lui e lui risponde: «Credo di significare un fenomeno di professionalità: il proprio lavoro fatto nel miglior modo possibile. Questo ho insegnato a chi è più giovane di me: lavorare, lavorare e poi ancora lavorare. Io sono sempre quello che, ragazzo sconosciuto, se ne stava per ore a cercare motivi con la chitarra nelle camerette di pensione».

Nel 1980 e dopo decine e decine di canzoni e di dischi di grande successo, entra in crisi anche il rapporto di Battisti con Mogol. Battisti dichiara: «per continuare la mia strada ho bisogno di nuove mete artistiche e di nuovi stimoli professionali. Devo distruggere l’immagine squallida e consumistica che mi hanno cucito addosso. Non parlerò mai più, perché un artista deve comunicare con il pubblico solo per mezzo del suo lavoro».

Battisti non si fa più vedere in pubblico ma nel 1982 esce il suo nuovo disco, E già, con i testi della moglie Grazia Letizia Veronesi, pseudonimo «Velezia». La critica lo accoglie freddamente. Anche musicalmente, è una svolta, poiché Battisti usa spregiudicatamente i suoni elettronici, come si fa ormai nelle discoteche con la disco-music, genere di cui Battisti rivendica pienamente la dignità.

E’ come se Battisti sbattesse la porta in faccia al grande amico di un tempo, rinunciando ad un gioco di squadra di successo e molto, molto remunerativo. Evidentemente c’è una saturazione delle tematiche di Mogol, come se Battisti le avesse subite, magari perché gli hanno dato fama e denaro; e ora avesse voglia di riprendere a far musica senza quella che evidentemente considera una zavorra.

Nel 1986 inizia la collaborazione con Pasquale Panella ed esce Don Giovanni.

«Alle sperimentazioni elettroniche di E giá – scrivono i critici – si è sostituita una scrittura raffinatissima, che dosa sapientemente armonie elettroacustiche e grandi melodie, in un susseguirsi di situazioni musicali mai noiose o ripetitive»

Con questo disco, il distacco con il Battisti prima maniera è completo. E un critico scrive che con Don Giovanni, Lucio Battisti celebra la propria definitiva scomparsa: «Non solo nessuno sa come è fatta oggi la sua faccia, ma difficile riesce persino andare a trovare, tra le parole di Don Giovanni, i suoi pensieri. Testi ermetici, simbolici, surreali, scritti da Pasquale Panella» che pochi, prima della sua collaborazione con Battisti, conoscevano.

«Se Mogol è stato il grande bozzettista, l’ indagatore di sentimenti e situazioni vere, Panella – viene scritto – è esattamente il suo opposto, ovvero un geniale enigmista per il quale la canzone non è mai un richiamo reale, ma casomai una oscura sciarada, un surreale gioco di specchi, fatto di rimandi, evocazioni imperscrutabili e rime improbabili».

Pasquale Panella sarà l’autore dei testi di tutti gli altri dischi di Battisti, molto apprezzati dalla critica, forse meno dal grande pubblico. Sembra che i due autori vadano ognuno per conto suo e che Battisti si serva dei testi di Panella come pretesto per le sue sperimentazioni musicali.

Lucio Battisti muore nel 1998 ed entra nel mito di tante generazioni e forse anche di quelle nuove.

 

Giancarlo Governi

 

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