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Il futuro della Musica? Un rubinetto digitale

Un tempo c'erano i dischi in vinile, poi le cassette e i cd. Adesso scarichiamo tutto dalla Rete

Il futuro della Musica? Un rubinetto digitale
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2 Gennaio 2016 - 12.48


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di Piero Montanari Non si vendono più dischi? Trovi gratis o quasi sulla Rete tutto l’ascoltabile umano? Questo fa arrabbiare (e morire artisticamente) molti di noi che vivono di musica e di diritti. Ma molti intentano ormai cause legali. L’ultimo della lista che ha iniziato in questi giorni un’azione giudiziaria collettiva contro Spotify (il servizio svedese che “affitta” milioni di brani musicali a milioni di utenti che pagano, per tutti, 9,99 euro al mese di abbonamento), è il cantautore e avvocato David Lowery, fondatore dei Camper Van Beethoven. E mentre c’è chi cede tutti i Beatles (13 album più raccolte), qualcuno resiste, come Adele, combatte, come Neil Young (che ha un suo player) o cerca un’alternativa (Jay-Z). Tutto questo mi riporta ad un articolo che scrissi mesi fa, inevitabilmente carico di nostalgia per i bei tempi vissuti tra vinile e cd.

Ho imparato ad ascoltare la musica grazie ai dischi di jazz e di classica che la mia “illuminata” sorella comperava, non si sa con quali soldi, agli inizi degli anni ’50, con una guerra finita da poco, povertà e tutto da ricostruire.


Avevo quattro o cinque anni e, pur non sapendo ancora leggere, individuavo i brani dalla forma delle etichette sui pesantissimi 78 giri e non ne sbagliavo uno. Li posavo delicatamente e li suonavo sul piatto del mastodontico giradischi di metallo inserito nel mobile di radica, unica tecnologia a disposizione insieme alla radio con le manopolone da posto di comando del Nautilus di Verne.

Almeno fino a quando, come d’incanto nel 1954, mio padre non fece apparire in casa un televisore Royal Eagle, anch’esso di radica, dal peso di un piccolo elefante e dal costo di un anno di stipendio medio di un operaio.

Quando arrivarono i cosiddetti “extended play”, dischi piccoli con quattro canzoni, due per facciata, e poi i magnifici e lunghi 33 giri, ero già grandicello, e iniziai a leggere le note di copertina che i 78 giri non avevano, essendo imbustati senza nessuna stampa, cosa che poi non ho mai smesso di fare.

Fu così che imparai a conoscere tutto quello che che esisteva oltre l’Artista: le sale di registrazione, i produttori musicali, le case discografiche, il management, in quale bar si rifornivano per i beveraggi, i parenti e le persone a cui dedicavano i dischi e infine, oltre all'”orchestra diretta da”, i musicisti che partecipavano alla seduta di registrazione.



Li conoscevo tutti, molti erano grandi jazzisti che si prestavano anche a fare i turnisti in sala per gli artisti pop od altri generi musicali, grazie al loro smisurato talento. Fu anche per loro che mi innamorai di questo mestiere e volli farlo a tutti i costi.

Oggi l’infinita tecnologia della quale disponiamo e che ha mandato in pensione anche l’ultimo dei supoporti musicali “fisici”, il CD, ci permette di accedere, aprendo un ideale rubinetto, a flussi inarrestabili di musica liquida e liquefatta della quale, a malapena, conosciamo il titolo del brano e l’artista e spesso neanche quello. Tutto sconosciuto, impersonale, indecifrabile; non si sa chi suona, chi produce, dove è stato realizzato il lavoro, che strumentazione hanno usato, in una solitudine che sconforta l’anima e alla quale puoi solo parzialmente fare fronte utilizzando un’altra mostruosità tecnologica, Shazam, un’app. che in pochi secondi ti dice cosa stai ascoltando e basta. 



Siamo costretti a citare ancora il famoso saggio del 1936 di Walter Benjamin “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” dove, tra le tante straordinarie intuizioni da vero visionario, l’Autore dice: “La riproduzione ripete l’opera d’arte sottraendole l’autenticità, che ne costituiva nel passato la caratteristica fondamentale, l’essenza stessa dal punto di vista della fruizione, che si trasforma in consumo. Da evento irripetibile l’opera si trasforma attraverso la moltiplicazione delle riproduzioni”

Lo stesso Benjamin poi, commentando un quadro di Klee, Angelus Novus, ci racconta che quell’angelo ha lo sguardo spalancato nel passato e ne osserva le sue macerie, mentre è in procinto, con le ali dispiegate, di fare un balzo nel futuro, sostenuto e irrimediabilmente sospinto da una ineluttabile tempesta che Benjamin chiama Progresso. 

Il vento del Progresso non ce lo siamo fatti scappare, abbiamo volato grazie a lui, ma ora dobbiamo fermarci e riflettere perchè quelle macerie non ci sotterrino anzitempo.

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