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Torna il festival Seeyousound: in apertura un film sull’Eurovision a Tel Aviv

L’evento più rock d’Italia si svolgerà a partire dal 19 febbraio. Per l’occasione, la regista Anna Hildur si schiera con la band Hatari - protagonista del documentario- criticata per ragioni diverse da palestinesi e israeliani

Torna il festival Seeyousound: in apertura un film sull’Eurovision a Tel Aviv
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16 Febbraio 2021 - 18.57


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di Chiara Zanini

Torna dal 19 al 25 febbraio Seeyousound, il primo festival in Italia dedicato al cinema internazionale a tematica musicale, e la regista Anna Hildur si schiera con la band che è stata criticata all’Eurovision sia dai palestinesi che dagli israeliani.

Dopo aver ottenuto lo scorso anno il primato del primo festival interrotto dal Covid, il festival cinematografico più rock d’Italia torna con 81 film in streaming. 6 i film in anteprima assoluta e 15 film in anteprima italiana, come 15 sono le registe donne coinvolte. Abbiamo intervistato Anna Hildur, autrice di un documentario girato per la maggior parte tra Israele e Palestina.

Hatari è una band islandese che si definisce ‘techno e anti-capitalista’, e che si è classificata prima nella vostra competizione nazionale che dà accesso all’Eurovision, il festival Söngvakeppnin. Ma quell’anno (era il 2019 e per l’Italia partecipava Mahmood, che poi arrivò secondo) l’Eurovision si sarebbe tenuto a Tel-Aviv, così Hatari sarebbe stata l’unica band da sempre avversa all’imperialismo di Israele e con una canzone che dice, in sostanza, che se non ci attiviamo hate will prevail, l’odio prevarrà. Una canzone che in Israele può diventare un inno anti-militarista.

Quando ha deciso di seguire la band nel viaggio in Palestina e Israele? E con quale spirito siete partiti?

Ero alla finale del concorso in Islanda il 2 marzo di quell’anno. Sapevo che se avessero vinto quella sera e se gli Hatari avessero deciso di andare in Israele, questa sarebbe stata una storia interessante su cui fare un documentario, quindi credo che sia stato quello il momento in cui ho deciso di farlo. La domanda che mi sono posta fin dall’inizio era se un gruppo underground sconosciuto, proveniente dall’Islanda, sarebbe stato in grado di raggiungere il mainstream, e se il loro messaggio sarebbe stato notato sul grande palco dell’Eurovision. La mia idea era di seguirli in questa loro ricerca attraverso gli occhi dei due frontmen, Matti e Klemens, che sono i protagonisti del film. Sono stato curiosa per tutto il tempo, è forse è questa la parola che descrive meglio il mio spirito in questo progetto: curiosità. 

Come viene coniugata all’Eurovision la libertà di espressione degli artisti con la volontà di fare uno show apolitico?

Gli Hatari sono stati molto espliciti sulla propria politicizzazione dell’Eurovision nel contesto del conflitto tra Israele e Palestina. Era chiaro a tutti noi che li osservavamo da vicino che non avevano intenzione di essere apolitici. Volevano esercitare la loro influenza come artisti e volevano prendere posizione, ed è quello che hanno fatto. Per me, come documentarista, questa era la grande domanda cui cercare di rispondere con il film: è possibile farlo in un evento mainstream così grande? L’idea di usare una piattaforma considerata apolitica per evidenziare le contraddizioni era uno degli elementi che coinvolgevano il pubblico.

I produttori esecutivi del documentario sono due tra i più grandi artisti inglesi sulla scena internazionale, Iain Forsyth e Jane Pollard. Come sono stati coinvolti?

Con Jane e Iain siamo amici da molto tempo. Nel 2017, quando ho deciso di entrare nell’industria cinematografica, hanno co-fondato con me una società di produzione che abbiamo creato in Islanda, chiamata Tattarrattat. È iniziata con l’idea di un’antologia di cortometraggi della regione nordica a cui stiamo ancora lavorando e che che speriamo di finire l’anno prossimo. Nel frattempo si sono concretizzati altri progetti in cui Iain e Jane hanno il ruolo di direttori esecutivi. Per A Song Called Hate, ho inizialmente chiesto loro se potessero dirigerlo, ma erano impegnati e mi hanno incoraggiato ad assumere il ruolo di regista e mi hanno promesso tutto il sostegno di cui avrei avuto bisogno. Così è stato, mi hanno aiutata soprattutto nel montaggio, per arrivare ad avere la storia più forte per il film. Sono grandi mentori e collaboratori e il loro film su Nick Cave, 20.000 Days on Earth, è senza dubbio uno dei migliori documentari musicali che siano stati realizzati.

 Va detto che tra la popolazione palestinese le reazioni sono state diverse, ad esempio il BDS (il movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’occupazione e l’apartheid israeliane), che esiste dal 2005, aveva chiesto agli Hatari di non partecipare. Il suo film fa riflettere su quale sia il modo giusto di esprimere vicinanza ad un popolo che subisce un’oppressione. Qual è il suo?

Sostengo tutte le misure e i metodi che le persone possono usare per ottenere giustizia per la nazione palestinese e per l’uguaglianza e i diritti umani in generale. Il BDS e i suoi sostenitori hanno fatto un grande lavoro nell’informare le persone sulla situazione in Palestina, ma se un artista decide di lavorare in modo diverso, non spetta a loro decidere come questo debba essere fatto. Come possiamo vedere nel film, ci sono sostenitori palestinesi del BDS che ritengono che la performance degli Hatari sia un modo nuovo e creativo di informare la gente sul conflitto israelo-palestinese. Il poeta palestinese Ahmad Yacoub ci ha incontrato per discutere le idee degli Hatari e ha sottolineato che ci vuole coraggio per attuare idee audaci. Ha sostenuto gli Hatari e la loro collaborazione con i musicisti palestinesi perché ha visto che si trattava di una posizione che avrebbe potuto avere un impatto. La performance degli Hatari è stata criticata da tutte le parti, sono riusciti a far arrabbiare sia gli israeliani che i palestinesi e pure gli organizzatori dell’Eurovision. Forse è proprio questo che fa una buona performance artistica. Fa sì che le persone ripensino e guardino il contesto delle cose da una prospettiva diversa. Almeno ha dato loro una voce nei media mondiali per un po’, che era una delle cose che volevo esplorare in questo documentario. Alla fine si può dire che abbiano sostenuto la causa del BDS anche se il loro modo di sostenere la causa non è stato approvato dal BDS. Ma la libertà di espressione e la libertà artistica è importante e dovremmo sempre abbracciarla, anche se non siamo d’accordo con la causa.

In Italia, la parità di genere nel settore audiovisivo è ancora lontana. Qual è la situazione in Islanda?

Per quanto riguarda la parità di genere la situazione sta migliorando, ma abbiamo ancora molta strada da fare. Una delle cose che ho notato da quando ho iniziato a lavorare nel cinema e mi sono trasferita in Islanda è che i film documentari sono finanziati molto poco. E le registe dirigono soprattutto documentari, quindi questa è sicuramente un ambito in cui abbiamo bisogno di migliorare. Detto questo, i principali enti di finanziamento stanno lavorando con le quote di genere per cercare di implementare l’uguaglianza di genere nell’industria cinematografica islandese e nell’ultimo paio d’anni sono stati fatti passi positivi in questo senso.

 

Seeyousound si tiene dal 19 al 25 febbraio sulla piattaforma playsys.tv. Ogni giorno verranno resi disponibili nuovi titoli che resteranno in visione per 7 giorni a partire dalle 9.00 del mattino (ticket singoli e abbonamenti sono acquistabili su www.seeyousound.org e www.playsys.tv, dove anche dopo il 25 febbraio si troveranno contenuti audiovisivi incentrati sulla musica.

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