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'Via con me': Venezia riscopre Paolo Conte con il docu-film di Giorgio Verdelli

Il racconto scorre sulla pellicola cinematografica intrecciandosi e mescolandosi con le migliori canzoni di quell’artista che, con una faccia un po’ così, ha fatto la storia della canzone

'Via con me': Venezia riscopre Paolo Conte con il docu-film di Giorgio Verdelli
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15 Settembre 2020 - 16.39


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di Manuela Ballo 

L’hanno già detto tutti e, d’altra parte, è inevitabile notarlo: Paolo Conte non poteva che finire sul grande schermo del Festival del cinema di Venezia e, al Lido, è stato presentato il Docu-film sul volto di un grande della canzone italiana dal titolo:
‘Via con me’.
Il regista, Giorgio verdelli, con gli amici e i colleghi del cantautore astigiano, ripercorrono le storie che li hanno legati, in rapporti di amicizia o collaborazione, con il personaggio più duttile ed enigmatico che abbia mai calcato i palchi nazionali ed internazionali. Il film, prodotto da Sudovest Produzioni e Indigo Film in collaborazione con Rai Cinema, è reso ancor più affascinante dalla voce narrante di Luca Zingaretti.
Il racconto scorre sulla pellicola cinematografica intrecciandosi e mescolandosi con le migliori canzoni di quell’artista che, con una faccia un po’ così, ha fatto la storia della canzone; poppando Jazz sin dalla sua fanciullezza e adolescenza, nel mezzo delle campagne piemontesi, e – come si sa – le prime poppate segnano la vita.
Nel suo caso, la sua vita d’artista.
Di quella musica s’è alimentato, l’ha rimasticata e digerita per poi passare ad altro, a fusioni sonore che farebbero invidia a chi cerca in ogni dove la contemporaneità. Siccome, ormai, è considerato un ” classico”, di ciò, direbbe lui stesso, se ne parla poco. Ormai è su tutti i rotocalchi e le sue interviste diventano come “calcomanie”. Chi ascolta le sue canzoni sa da dove vengono quelle note; riconosce quell’alternarsi ora di suoni di ottoni, ora di larghe aperture orchestrali. Lui stesso ha suggerito più volte la marca del latte poppato, narrando dell’influenza che ebbero su lui i tanti Louis Armstrong sparsi nei vari angoli dell’America, allora lontana, e da lui ascoltati nelle gracchianti onde corte della radio o nei primi pesanti long-playing. Nel film-documentario ce n’è, infatti, abbondante traccia.
Nella copertina a lui dedicata da Robinson sul finire dell’anno scorso, ha con esattezza colto come in quella sua passione ci sia la genesi dei suoi lavori: ” In quei suoni stranieri cercavo, senza dirla con troppa enfasi, una divinità. Una divinità femmina. All’epoca non mi piaceva la scena italiana. Poi con l’arrivo di gente come Celentano mi sono detto: provo a comporre qualcosa. Però mi vergognavo”. Una divinità femmina come la verde milonga o le molte donne, trattate come divinità, che alimentano i racconti che si annidano dentro le sue musiche. Più volte nel tentativo di indagare sulla sua riservatissima vita personale gli intervistatori si sono lasciati andare a supposizioni sui volti o i nomi di quella/ quelle donne. L’artista ha sempre scritto cercando quella divinità femmina. C’è cascato anche un regista come Sorrentino quando, nell’intervista su Vanity, ha chiesto se ricordasse il suo primo amore. Risposta lapidaria, alla Polo Conte, appunto: ” Lascio alla sua meditazione d’artista e di uomo sensibile e vissuto, questa piccola cabala!” Non è forse vero che tutti gli amori di una vita sono dei primi amori?”.
Amstrong e Celentano, cabale e rebus, musica e parole. Dal 1974, abbandonate le resistenze giovanili, scrive piccoli e grandi capolavori, piccole o grandi trame di film. In manciate di libri studiosi dei diversi settori hanno cercato di indagare su quale sia stato il rapporto tra la musica e le parole nella sua opera. Per alcuni ha vinto sempre la musica. Altri, pochi a dire il vero, si sono battuti per dar più peso alle parole. A Venezia, al Festival, s’è iniziato a sciogliere, con il suo contributo, l’annoso enigma. L’ha fatto, utilizzando il cinema come la grande arte che permette di unire parole, immagini e musica, mostrando una similitudine tra l’arte cinematografica e quella del comporre musica e canzoni. In entrambe è, infatti, fondamentale la durata: “una canzone non dovrebbe mai superare i tre minuti” afferma Conte.
E, di fatto, come fotografie, le sue musiche, immortalano momenti, attimi e sensazioni, sviluppano storie e raccontano personaggi e paesaggi.
D’altra parte, nel risolvere i complessi rapporti tra suoni e immagini, gli viene in soccorso un’altra arte, la pittura. Su questa sua arte, ci sarebbe bisogno di un altro specifico film.

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