di Giuseppe Costigliola
Harvey Weinstein, il potentissimo magnate hollywoodiano, è stato condannato. Annabella Sciorra, una delle sei donne che hanno testimoniato contro di lui, dopo il verdetto ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Non rimpiangeremo mai di aver rotto il silenzio”. Dunque, grande vittoria per il movimento #MeToo, e per tutte le donne. Ma lo è davvero?
Weinstein è stato condannato per aggressione sessuale e stupro, dopo un processo durato tre settimane, in cui le sue accusatrici lo avevano denunciato per abusi sessuali, stupri, rapporti orali forzati e palpeggiamenti, ma è stato assolto per lo stesso reato contro altre due donne. La rivelazione dei suoi abusi ha fatto decollare il movimento #MeToo, e il processo, volente o nolente, ha finito per assumere le caratteristiche di un referendum su quel movimento, più che un giudizio penale su un imputato.
Negli Stati Uniti è in corso una profonda riflessione sul significato di questa sentenza. Sulle pagine del New York Times la scrittrice Rebecca Solnit afferma che il verdetto rappresenta uno spartiacque, ma ammonisce anche a non dormire sugli allori. La democrazia del suo Paese, ella sostiene, ha una inesorabile gerarchia nel sistema giudiziario e di potere, e la condanna di Weinstein mostra che quella gerarchia comincia ad essere messa in discussione, ma ciò non significa che si sia sgretolata. La violenza sessuale, sostiene la Solnit, continua a produrre i suoi danni in ogni campo e in ogni settore della società, rendendo insopportabile la vita di milioni di donne.
Moira Donegan, sul Guardian, scrive che il verdetto di condanna è solo una parziale vittoria per il movimento #MeToo. Essa non riflette un cambiamento nel sistema giudiziario, e c’è il rischio che il suo significato simbolico venga sopravvalutato. Anche considerando la natura straordinaria del caso in oggetto, l’enorme portata in numero di accuse (sono state 90 le donne che hanno testimoniato contro Weinstein), la condanna “è una vittoria troppo modesta, ottenuta dopo una battaglia durissima e troppo protratta nel tempo, che diviene simbolo non di quanto siamo riuscite a far considerare seriamente il reato di abuso sessuale, ma piuttosto di quanta strada dobbiamo ancora fare”.
In un editoriale del New York Times si sottolinea la difficoltà di portare in giudizio chi si macchi di tali crimini. I magistrati della pubblica accusa nel processo Weinstein hanno dovuto combattere contro una pervasiva cultura del sospetto verso le donne che hanno denunciato gli abusi sessuali; si sono scontrati con il sistema investigativo delle varie agenzie delle forze dell’ordine, che troppo spesso malgestiscono e sottostimano i casi di abusi sessuali, ponendo dei limiti procedurali alle possibilità delle vittime di denunciare i reati subiti. S’impone, quindi, un cambiamento a livello legislativo e alla sua applicabilità nel concreto.
Sempre sulle pagine del NYT, Deborah Tuerkheimer sostiene che il verdetto Weinstein rappresenta un progresso per tutte le vittime di abusi sessuali. Già solo il fatto che un personaggio così potente sia stato processato è una conquista, visto che la gran parte dei reati sessuali non vengono neanche denunciati, e ancor meno danno luogo ad un processo penale: secondo i dati di un’agenzia che si occupa di tali reati (“The Rape, Abuse and Incest National Network”), su mille casi appena cinque finiscono con una condanna. Anche per la Tuerkheimer è sempre una questione di cambiamento culturale, l’unico in grado di mutare il modo in cui il sistema giudiziario e il sentire comune rispondano alla violenza sessuale.
Altri analisti notano che questa sentenza potrà incoraggiare le vittime a denunciare i reati subiti, e, cosa molto importante e spesso trascurata, essa porta all’attenzione di tutti che un reato di stupro può avvenire anche in un contesto di rapporti sessuali consensuali.
L’attrice Ashley Judd ha ringraziato con un tweet “le donne che hanno testimoniato in questo caso, che hanno sofferto momenti traumatici, e che hanno reso un pubblico servizio alle ragazze e alle donne d’ogni dove”. E in un’intervista al NYT si è soffermata sull’aspetto morale e personale della vicenda: “Avrei voluto che Harvey fosse uscito un uomo diverso dal processo che ha subito, che emotivamente avesse fatto i conti con il male che ha fatto”. La cosa grave è che Weinstein non ha mostrato alcun rimorso per le proprie azioni.
C’è poi chi, come Chanel Miller, autrice di un memoir sulla sua esperienza di vittima di stupro (“Know My Name”), pone l’accento sulle drammatiche conseguenze emotive che il dibattimento procura alle vittime. Durante il contraddittorio, le accusatrici vivono un’esperienza altamente dolorosa e stressante: “Bisogna considerare che ogni vittima che depone in aula aggiunge trauma a trauma”.
Dunque, in sintesi, il verdetto Weinstein rappresenta sotto molti aspetti una pietra miliare per la storia dei diritti delle donne e lancia un messaggio chiaro al sistema della giustizia penale americano. Ma è soltanto una tappa nel lungo, tortuoso cammino verso una rivoluzione culturale che, sola, potrà davvero ridefinire e riequilibrare le relazioni uomo-donna su una base di effettiva giustizia, parità ed equità, scardinando sordide incrostazioni sessiste accumulate in millenni di cultura patriarcale e fallocentrica.
Nel nostro Paese, in quel cammino siamo ben dietro. Basta guardarsi intorno, sfogliare le pagine di cronaca, per rendersi conto che le violenze sulle donne, d’ogni tipo, rappresentano una tragica quotidianità. Basta ascoltare il raglio di uomini di potere, di politici locali o di livello nazionale, di certi giornalisti e analisti che su quei reati pontificano come parlando di sport e di varietà, minimizzandoli e cancellandone la portata morale, per capire la barbarie culturale in cui versiamo. Basta ascoltare l’uomo della strada, in taluni casi origliare la trucida voce che talvolta sussurra in noi stessi, per comprendere che la lotta al sessismo sarà ancora lunga e accidentata — per tutti, ma soprattutto per le vittime. Che l’America, una volta tanto, c’illumini.