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L’Academy si tinge di rosso: la notte degli Oscar 2020

Finalmente, è stato premiato un film con un immaginario completamente diverso dal consueto milieu americano

L’Academy si tinge di rosso: la notte degli Oscar 2020
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10 Febbraio 2020 - 18.04


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di Giuseppe Costigliola 
La 92ma edizione degli Oscar, la notte in cui la più grande e potente industria cinematografica del pianeta celebra da quasi un secolo se stessa con magniloquenza e retorica da basso impero, è andata in archivio. Anno dopo anno, con sfarzosa ripetitività, sul palco del Dolby Theater sfilano i giovani e vecchi leoni della complicatissima settima arte, le star del momento, i miti ancora in vita che simili a zombi arrancano sul palco: una kermesse sempre uguale a se stessa, che trae forza dalla più potente arma in grado di guidare l’homo sapiens: l’immaginario.

Ma forse, questa edizione verrà ricordata. Forse, il detestabile White Male Power, l’incontrastato dominio ideologico e culturale (e ovviamente finanziario) che colonizza da sempre il cinema statunitense, con storie scritte e dirette da bianchi maschi anglosassoni, ha subito una battuta d’arresto. Sì, perché per la prima volta nella sua quasi centenaria storia, il premio come miglior film è andato ad un’opera straniera, il sud-coreano “Parasite”, che ha incassato anche altre tre statuette: miglior regia a Bong Joon-Ho, miglior sceneggiatura originale (allo stesso Joon-Ho), e miglior film internazionale (un tempo veniva chiamato “straniero”). Dunque, è la prima volta che una pellicola non in lingua inglese sia riuscita nell’impresa (se si esclude “The Artist”, che però è un film muto e comunque ambientato ad Hollywood), che tra l’altro si affianca al trionfo ottenuto a Cannes.

Finalmente, è stato premiato un film con un immaginario completamente diverso dal consueto milieu americano, uno spaesante (per noi occidentali) altrove geografico e culturale, che pone al centro la tematica politicamente universale e atemporale del conflitto tra le classi sociali, alla faccia dei peana antimarxisti. Al di là di questo, siamo al cospetto di un film tecnicamente ed esteticamente notevole, magistralmente girato, e ha fatto una certa impressione vedere sul palco del Dolby Theater un nutrito gruppo di sorridenti ed emozionati artisti coreani, la soddisfazione e la fierezza dei loro sguardi. Bong Joon-Ho, da parte sua, ha voluto rendere un toccante omaggio a Martin Scorsese, come a sottolineare la trasversalità e la globalità dell’arte: “Quando studiavo cinema ciò che più mi è rimasto nel cuore è la frase: più si è personali, più si è creativi. E quella è una frase di Martin Scorsese”. Parole accolte con la classica standing ovation.

Il significato politico e culturale di un tale evento non è sfuggito al co-produttore di “Parasite”, Kwak Sin Ae, che nel suo discorso di accettazione ha sottolineato quanto sia importante che ciò sia avvenuto nel contesto storico in cui viviamo, col mondo occidentale avvelenato da vetuste e perniciose ideologie razziste di suprematismo bianco.

La singolarità di questa premiazione non è comunque casuale. Da anni si sono levate proteste contro la sistemica chiusura agli artisti rappresentanti le cosiddette “minoranze” (artiste donne, di qualsivoglia colore di pelle ed orientamento religioso e sessuale, stranieri): particolarmente virulente furono nel 2015 e 2016 le proteste di #OscarsSoWhite, tanto da indurre l’Accademia degli Oscar ad espandere al suo interno il contingente straniero. E l’anno scorso l’Academy ha invitato a diventare suoi membri 842 professionisti dell’industria cinematografica, appartenenti a 59 nazioni. (Ad ogni modo, per inciso, neanche quest’anno sono stati premiati artisti afroamericani).

I risultati di questa piccola rivoluzione si sono poi visti anche con il premio assegnato a Hildur Guðnadóttir, violoncellista e compositrice islandese, per la notevole colonna sonora del film “Joker”: un evento anche questo, considerato che erano 22 anni che il premio andava ad un compositore maschile.

Un altro motivo che ha reso particolare questa edizione degli Oscar è l’emozionante quanto intelligente discorso tenuto dal vincitore della statuetta come miglior attore protagonista: Joaquin Phoenix. Che il premio andasse a lui per il ruolo dello sconvolto reietto di “Joker” era chiaro sin dalle quote degli scommettitori. Nella sua carriera Phoenix si era già guadagnato tre nomination (“Il Gladiatore”, “Quando l’amore brucia l’anima” e The Master”), ed è un premio certo meritato. Il suo toccante discorso è stato all’altezza della recitazione, centrato com’è sull’amore e sulla fratellanza universale, sulla denuncia contro i crimini barbarici che l’essere umano perpetra contro gli animali e la natura. Val la pena citarne qualche brano, poiché Phoenix ha ben chiaro l’impegno etico che dovrebbe caratterizzare il lavoro di un artista, a maggior ragione se di successo, e il suo messaggio è davvero forte e politicamente significativo: “Il dono più grande che mi ha dato il cinema è quello di poter dare voce a chi voce non ha. È arrivato il momento di iniziare a farci portavoce di altre cause”. E ancora, più chiaramente: “Tutte le volte che parliamo di diseguaglianze di genere, razzismo, diritti LGBTQ, diritti degli animali e dei nativi, parliamo di diritti dove una specie non deve dominarne un’altra impunemente”. Non manca la lucida presa di coscienza ambientalista, l’atto di accusa contro una specie che sta follemente distruggendo il pianeta: “Siamo così lontani e disconnessi dalla natura, pensiamo di essere al centro dell’universo, ci sentiamo in diritto di inseminare artificialmente una mucca e quando gli nasce un vitello glielo strappiamo o usiamo il suo latte per i cereali al mattino”.

Per il resto, non ci sono state particolari sorprese: tre premi sono andati al magniloquente “1917” di Sam Mendes, che sino all’ultimo ha conteso la statuetta al vincitore: miglior fotografia, sonoro ed effetti speciali. Il premio alla migliore attrice protagonista è andato a Renee Zellweger per il film “Judy”, del regista Rupert Goold, adattamento del dramma teatrale “End of the Rainbow” di Peter Quilter, che narra la parabola esistenziale di Judy Garland. Miglior attore non protagonista è stato Brad Pitt, per “C’era una volta a… Hollywood”, di Quentin Tarantino, che si è aggiudicato anche il premio per il production design. Completano il quadro i due Oscar al forse trascurato “Le Mans 66 – La grande sfida” di James Mangold (montaggio e sound editing), quello ai costumi a “Piccole donne” e l’Oscar per il trucco a “Bombshell”. La Disney/Pixar si conferma padrona assoluta per l’animazione, con “Toy Story”, mentre Elton John porta a casa il secondo Oscar per il brano “I’m Gonna Love Me Again”, tratto dal suo biopic “Rocketman”, che canta dal vivo in una non memorabile esecuzione.

Non manca il consueto momento dedicato ai mostri sacri della settima arte, con la voce di Billie Eilish che intona “Yesterday” ad accompagnare le immagini “in memoriam” di Piero Tosi e Franco Zeffirelli, del mitico Kirk Douglas appena scomparso, di Peter Fonda, Terry Jones e Bibi Andersson.

Due ultime notazioni: il ridimensionamento del gigante dello streaming, Netflix, sbarcato con le sue produzioni con ben ventiquattro nomination, che ha raccolto soltanto due premi: “American Factory” come miglior documentario (racconto dello scontro tra un imprenditore cinese e dei lavoratori dell’Ohio), e Laura Dern come miglior attrice non protagonista di “Storia di un matrimonio”. Perfettamente in tono con il discorso di Phoenix e il tema di “Paratise” è parsa la battuta di Julia Rieichert, co-regista con Steven Bognar di “American Factory: “Per i lavoratori la vita è sempre più dura e potrà migliorare solo quando lavoratori di tutto il mondo si uniranno”. Un riverbero comunista che pronunciato in una kermesse come questa fa un certo effetto.

Sa, infine, di batosta la mancanza di premi per “The Irishman” di una leggenda come Martin Scorsese, un film che in effetti non poteva pretendere di più, soprattutto in una edizione degli Oscar così “innovativa”.

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