Ho terminato ora il libro di Gianmaria Testa “Da questa parte del mare” – edito da Einaudi con la prefazione di Erri De Luca – e sento il bisogno e l’urgenza di “parlare parole”.
Mi resta questa amargura per non averle dette prima le parole per descrivere la grandezza del poeta chè se le meritava vivo le parole mozze che dalla bocca mi escono.
Questo libro è un viaggio dentro la poesia fatta di stracci, di passi stanchi, di fatiche, di rimpianti. È la storia che entra dentro le canzoni e le accarezza, le racconta riempiendole di umanità e del profumo del pane e della terra.
C’è una voce, muta, che racconta e narra storie di migranti, di seminatori di grano, dell’andare, del partire. Racconta, la voce, la genesi della canzone, l’illuminazione, gli uomini, le donne, le ingravidate che partoriscono sul suolo pubblico comunale. Gli occhi che si guardano, innamorandosi, sopra una barca scura che solca il Mediterraneo dentro la paura, dentro il terrore. E sempre a proteggere le storie, a custodirle, a cambiarne – in fondo – il destino c’è questo sguardo, lo sguardo del poeta che trasfigura in parola la vicenda umana di certe piccole vite.
Gianmaria racconta, lieve. E osserva dal buio di un altrove quelle vite e ne cambia il destino dentro la forma poetica.
Il passo di chi semina il grano, il ricordo di un matrimonio – tu bambino – e la voce che intona Miniera, il ferro di Torino, un violinista albanese, una prostituta nigeriana nera come la notte quando è nera, due occhi – occhi di femmina, occhi di ragazzo – che si guardano nell’amore al buio di una barca, nell’ammasso dei corpi: perduti mentre si cercavano, nell’imbuto di Lampedusa dove tutto si risolve e si estingue.
C’è il ricordo di chi ti diede la vita, nella tenerezza di figlio. Una porta aperta, le parole taciute di figlio, al padre. Il respiro di Nicola, figlio tuo. Il nome di Matteo e Luigi, scelti così. Perchè così si fa. Col cuore. L’artigiano che intaglia le parole e le musiche, alla chitarra. E l’ansia di far sentire la creatura all’amata, nella notte. A Paola che nella notte sentiva germogliare la creazione nell’assenza calda dal letto. Dove tutto era attesa: di una musica, di un silenzio. Un’ombra che racconta di una luce. La luce che ha illuminato la vita.
C’è Jean-Claude Izzo che piange ascoltando Murolo; Izzo già malato che spera di guarire, la tua speranza detta per bocca di altri. Che era troppo presto per attraversare la porta.
Ora che queste parole e le pagine ci consolano. Anche se non bastano. Non basteranno più.
E ora, dai posti dell’Ormai, ti giungano le mie parole strette e senza meta.
Tu, Gianmaria, che mi hai reso più dolci le ore. Ora che mi resta questo guardare muto. Anche se ancora c’è bisogno di poche parole e di una porta aperta.