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Aiuto, mi è toccato il Leone!

Anche quest'anno la Mostra del cinema ha celebrato il suo rito di festival per pochi intimi, premiando dei film che pochi o forse nessuno vedrà mai.

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8 Settembre 2014 - 18.06


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di Piero Cinelli

E vai. Anche quest’anno la Mostra d’arte cinematografica di Venezia ha celebrato il suo rito di festival per pochi intimi, premiando dei film che pochi o forse addirittura nessuno vedrà mai. Il ‘Piccione’ di Roy Andersson, vincitore del Leone d’Oro, e ‘Il Postino’ di Andrei Konchalovsky, vincitore del Leone d’argento, non hanno un distributore e per ora non arriveranno nelle nostre sale. Stesso discorso per ‘Tales’ dell’iraniana Rakhshan Banietemad, miglior sceneggiatura, e il premio speciale della giuria, il turco ‘Sivas’ di Kaan Mujdeci e ‘Le dernier coup de marteau’ di Alix Delaporte, il cui protagonista ha vinto il premio Mastroianni come miglior rivelazione. Unici ad avere un distributore il Gran premio della giuria ‘The Look of Silence’ che sarà distribuito da una piccola società specializzata in documentari d’autore e ‘Hungry hearts’ di Saverio Costanzo premiato con le Coppe Volpi ai due protagonisti che sarà distribuito da 01 Distribution. Succede regolarmente ogni anno, vedi l’anno scorso il Leone d’Oro al documentario ‘Sacro Gra’ (che però grazie a Venezia e RaiCinema/officine Ubu raggiunse le sale con un discreto successo). [url”E vedi gli anni precedenti “]http://giornaledellospettacolo.globalist.it/Detail_News_Display?ID=73745&typeb=0&Leoni-d-Oro-gli-incassi-dei-film-vincitori-di-Venezia-dal-96-ad-oggi[/url].

Ma quest’anno si rischia di battere tutti i record con cinque dei sette titoli premiati proibiti al grande pubblico. C’è da chiedersi, anche se la domanda rischia di essere retorica e ripetitiva oltreché necessaria, che senso ha fare un Festival chiuso tra pochi addetti che ogni anno celebra con presunta superiorità estetica un cinema lontano dal pubblico? E che nove volte su dieci snobba tutto ciò che puzza di Hollywood e dintorni, alla ricerca di cinematografie sempre più marginali, con l’orgogliosa intima convinzione che vale più un esordiente dell’Azerbaigian di un film di un autore di Hollywood. Niente da eccepire sulla ricerca di una nuova estetica globale e terzomondista, purché non si perda il contatto con le nuove frontiere (che di certo non mancano) delle grandi fabbriche del cinema, perché il cinema, oggi più di ieri, non si può misurare esclusivamente dalla sua sempre più sterile autorialità (a parte i capolavori che non mi pare siano della partita), ma dal suo sforzo produttivo e dalla sua innovazione.

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