Cominciò tutto così… potrei raccontare la nascita dei Fumetti in Tv” (prima si chiamava Gulp! Poi Supergulp! semplicemente perché era più lungo, ma il sottotitolo fu sempre questo …) alla maniera delle storie dei Supereroi (e in passato l’ho anche fatto), ma racconterò i fatti cercando di non romanzarli troppo.
Eravamo alla fine dei Sessanta, il Sessantotto era passato lasciando un segno profondo soprattutto nel costume, nei gusti, non soltanto dei giovani ma anche degli adulti che avevano preso a farsi crescere i capelli, baffi alla messicana e barbe lunghe ed incolte. I giovani portavano i jeans e d’inverno l’eskimo che era una specie di giubbotto militare di tela verde: qualche giovane di allora lo ha conservato gelosamente nell’armadio. Anche io lo avevo conservato ma mia moglie se ne è disfatta proditoriamente regalandolo alla Caritas, non sapendo, la tapina, che si trattava di un cimelio che nel suo piccolo aveva contribuito a fare la storia. Ma gli adulti cominciavano a farsi sedurre dalla moda che incominciava a proporre pantaloni a zampa di elefante, giacche vittoriane, camicie attillatissime che al primo aumento di volume dovuto ad abbondanti libagioni facevano partire a raffica tutta la bottoniera, uomini con i basettoni e donne con i capelli cotonati. Insomma quel museo degli orrori che fu la moda degli anni Settanta.
I gusti musicali erano cambiati radicalmente, grazie ai Beatles e alla rivoluzione del rock. Anche quelli degli adulti stavano diventando meno provinciali. C’era stato anche la riscoperta del fumetto, grazie a un gruppo di intellettuali che erano stati ragazzi negli anni Trenta, il decennio d’oro del fumetto americano, come Umberto Eco e come Oreste Del Buono. Era nato, già nel 1964, un grande mensile come Linus, a cui si aggiunsero ben presto anche il Mago e Eureka. La scuola del fumetto italiano stava avendo un grande rilancio, grazie anche a Carosello che proponeva anche storie disegnate, di cui i telespettatori ignoravano tutto (autori, registi, disegnatori) ma che erano realizzati da grandi personaggi, come Paul Campani che operava a Modena in una specie di stabilimento, con teatri di posa, moviole, macchine da presa verticali e decine di dipendenti, tra cui alcune ragazze che ti facevano girare la testa. E fu proprio un Carosello di Paul Campani che mi dette l’idea.
Dovete sapere che, dopo alcuni anni da giornalista, avevo accettato di entrare alla Rai a condizione di poter lavorare nei programmi che erano la mia grande passione e mi avevano nominato caposervizio “Programmi speciali” e, siccome nessuno mi seppe dire che cosa fossero questi programmi speciali (“sono quei programmi che non rientrano nella normalità, per contenuti e per linguaggio” fu l’interpretazione più convincente che mi fu data dai miei capi) mi misi a progettare, come si suol dire, a 360 gradi. Proprio nella fase di progettazione vidi un carosello che attirò la mia attenzione. Il personaggio si chiamava Pupa ed era fatto di disegni non animati, cioè disegni fermi ripresi dalla camera in movimento. Il carosello che mi fece scattare l’idea era di Paul Campani.
Mi misi alla ricerca di persone con cui realizzare un programma che non fosse sui fumetti ma fatto con i fumetti, un programma, insomma, basato sul linguaggio dei fumetti che raccontasse storie disegnate.
Il primo nome che annotai sul mio taccuino era quello di Paul Campani, di cui praticamente ignoravo quasi tutto. Qualcuno mi aveva detto che in gioventù Campani aveva fatto il disegnatore di fumetti (un suo personaggio, quello di Mister X, che noi ragazzi chiamavamo Misterix) riaffiorò dalla mia adolescenza, poi, dopo una lunga esperienza all’estero era tornato in Italia e si era messo a lavorare per la pubblicità, i caroselli appunto, dove aveva inventato personaggi disegnati di grande successo, come Provolino, ad esempio, quello che diceva sempre “boccaccia mia statti zitta…”
Il secondo nome fu quello di Bonvi che avevo incontrato nella rivista Off Side, dove aveva preso a pubblicare le Sturmtruppen, prima di vincere il concorso di Paese sera, che gli dette popolarità nazionale e anche internazionale. Insieme alle Sturmtruppen Bonvi pubblicò su Off Side, a puntate, anche Storie dello spazio profondo che erano sceneggiate dal cantautore, allora per niente famoso, Francesco Guccini. Bonvi mi aveva colpito per il disegno caricaturale e chiaro nello stesso tempo che mi sembrò subito molto adatto al mezzo televisivo che richiede semplicità.
L’occasione per conoscere i protagonisti del fumetto italiano me la dette subito il Salone dei Comics che si teneva a Lucca da alcuni anni. Lì, nella bella città toscana mi aspettavo di trovare chissà che cosa (interi palazzi patrizi dedicati ai fumetti) e invece mi accorsi che tutto si svolgeva dentro il Teatro del Giglio dove si faceva qualche proiezione e dove gli esperti (Traini, Laura, Calisi, Trinchero ed altri) disquisivano sul linguaggio del fumetto, mentre nei piani alti del teatro i collezionisti si scambiavano i pezzi pregiati della loro collezione. Scopersi che il giornaletto più prezioso era Topolino e il cavallo Piedidolci, la cui quotazione era arrivata a trecento mila lire, una cifra pazzesca per quell’epoca, pari a tre stipendi di un impiegato. Il tutto si svolgeva nell’indifferenza generale della città. Insomma, Lucca (così gli addetti ai lavori chiamavano familiarmente il Salone) non era ancora diventata quella manifestazione importante anche a livello mondiale che sarà negli anni Settanta e ai miei occhi di profano sembrò quasi una riunione di carbonari.
I protagonisti li trovai la sera nella hall dell’albergo Napoleon dove capii che si svolgeva la vera manifestazione che era fatta di incontri fra autori ed editori fra una bevuta e l’altra. In quella calca mi fu presentato Bonvi, biondissimo, vestito alla militare, che faceva di tutto per assomigliare ora ad un tedesco, ora ad un avventuriero internazionale balzato fuori da un fumetto di avventura (una specie di “predatore dell’Arca perduta”, ante litteram). Elemento comune a tutte e due le versioni era il bicchiere di whisky con ghiaccio nella mano destra.
Bonvi mi trattò con sufficiente deferenza. Mi chiamò dottore e mi dette subito del lei, forse per stabilire le distanze che devono esserci fra un artista e un funzionario che viene ad offrire un’occasione di lavoro e dal quale il creativo deve, come si suol dire, farsi tirare la calzetta, che poi vuol dire fingere di essere molto impegnati e scarsamente interessati alle proposte che il funzionario ti viene a fare. Insomma, io che volevo interpretare il mio ruolo di funzionario in maniera creativa, rimasi un po’ seccato dall’atteggiamento di Bonvi e non sospettai minimamente che sotto quella divisa si nascondeva un uomo buono e geniale, generoso fino alla dissipazione, con il quale stringerò una delle più belle amicizie della mia vita. Come accadrà del resto con Guido De Maria che Bonvi portò con se al nostro primo incontro a Roma, il quale si rivelò subito il personaggio chiave di tutta l’operazione “fumetti in TV”, colui insomma che seppe dare concretezza alle mie vaghe intuizioni.
Di Bonvi saprò che si chiamava Franco Bonvicini (ma soltanto alla moglie e madre dei suoi figli fu consentito chiamarlo con il nome di battesimo), si era diplomato geometra, ma diceva di essere un “geometro”, per rispetto alla lingua italiana, essendo lui di genere maschile. Per tutta la vita ha disseminato la sua biografia di fatti e di elementi al limite tra la realtà e la mitologia, tra il dramma e la beffa, in una continua confusione, o commistione, con la fantasia. Bonvi insomma la sua vita l’ha inventata giorno per giorno. Bonvi era l’ultimo spirito libero, l’ultimo anarchico. In tutta la sua vita ha sempre combattuto, con le armi del ridicolo, contro la burocrazia, il conformismo, la stupidità. Fino alla sua morte assurda avvenuta pochi giorni prima del Natale del 1995.
In più di trenta anni di lavoro e in mezzo secolo di vita il geometra Franco Bonvicini creò capolavori che rimarranno nella storia del fumetto italiano e mondiale. Ma il suo capolavoro fu la sua biografia inventata, giorno per giorno, momento per momento, che gli permise di creare il mito di Bonvi che gli sopravviverà per lungo tempo, anche al di là della memoria di chi lo conobbe.
E vengo a Guido De Maria. Chi non lo conosce non sa che cosa sia l’ottimismo e la vita come miscela perfetta di impegno e di gioco insieme.
Guido De Maria è un personaggio molto versatile : figlio di un veterinario di Bologna, si iscrive, dopo il liceo, alla facoltà di matematica ma non arriva alla laurea, distratto da mille interessi tutti contrastanti tra di loro, tanto che oggi, vicino alla settantina, e pur avendo avuto successo nella vita, sembra ancora alla ricerca della sua strada. De Maria è una persona che sa fare tutto : è capace di costruire una casa da solo, di fare una tovaglia all’uncinetto, di riparare una fisarmonica abbandonata da anni, di suonare perfettamente l’ocarina (il suo pezzo forte è la “Gigiotta”), di confezionare tortellini per duecento persone, di dirigere un giornale, di girare un film, facendo il regista, l’operatore, il montatore e l’attore. E moltissime altre cose. Se fosse vittima di un naufragio e si ritrovasse in un’isola deserta, sarebbe capace di trasformare l’isola, nel giro di qualche anno, in una piccola Manhattan. Ma la sua vera vocazione è quello dell’animatore di compagnie di amici, di circoli ricreativi e culturali. Soltanto l’età e la famiglia da mantenere gli impediscono di passare l’estate a far divertire gli ospiti dei villaggi Valtur e il resto dell’anno a confezionare tortellini per gli amici e a organizzare scherzi goliardici.
Alla metà degli anni Sessanta Guido De Maria, appena trentenne, dopo aver fatto l’umorista, aveva fondato una importante società pubblicitaria che ideava e produceva bellissimi caroselli in animazione. Francesco Guccini, che ancora non pensava di fare il cantautore, lavorava per De Maria. Un giorno pensò di portare in ditta il giovane Bonvi alla ricerca di un lavoro. Bonvi si sedette davanti a De Maria, lo guardò con aria seria ed anche un po’ accigliata per qualche secondo, e poi disse : «E’ inutile insistere, non posso lavorare per lei, perché mi sto occupando di colture idroponiche su Marte». In parole povere diceva di voler coltivare pomodori su un altro pianeta. Guido fiutò subito il tipo e si mise a parlare delle culture idroponiche, delle difficoltà che si incontra a coltivare i pomodori su Marte e dei vantaggi che indubbiamente ne trarrebbe l’umanità se ci fosse riuscita. Il tutto con la voce di Jerry Lewis. Bonvi capì che De Maria, se è possibile, era più matto di lui e si fece assumere come disegnatore ed iniziò la sua storia professionale.
Con la collaborazione di Guccini e Bonvi, De Maria realizzerà uno dei caroselli in animazione più belli e divertenti di quegli anni : Salomone, il pirata pacioccone. Guido, che l’aveva ideato, faceva la regia, Francesco scriveva le sceneggiature e le strofette (“Son Salomone, il pirata pacioccone…”), che venivano musicate da Franco Godi. Alla fine c’era il pirata feroce che chiedeva con forte accento siciliano : “Lo possiamo torturare?” . “Ma cosa vuoi torturare” rispondeva Salomone “porta pazienza, so io come fargli aprire la bocca…”, e mi pare che ricorresse all’amarena Fabbri. E Bonvi disegnava. Erano disegni tondi, cordiali, di facile lettura, nella scuola di Jacovitti (l’unico vero maestro di Bonvi), che poi ritroveremo nei successivi personaggi, soprattutto in Nick Carter e in Marzolino Tarantola, ma anche nelle Sturmtruppen. La collaborazione con De Maria avrà il suo apice proprio in Supergulp!, con il personaggio di Nick Carter.
Facemmo due prove, una sul personaggio di Petrosino, affidata a Paul Campani e a Max Massimino Garnier, e l’altra a Bonvi e De Maria sul personaggio di Nick Carter. Petrosino (il poliziotto italoamericano che fu ucciso dalla mafia a Palermo, all’inizio del secolo scorso) era un personaggio troppo forte per sprecarlo in un fumetto ed infatti diventò uno sceneggiato, con la regia di Daniele D’Anza e per la interpretazione di Adolfo Celi, che ebbe grande successo. Scelsi Nick Carter, un poliziotto appartenente alla letteratura popolare americana, che diventò il perno intorno al quale si sviluppò tutta l’operazione. Bonvi e De Maria ne dettero, come del resto Campani, una versione comico-grottesca che ci sembrava la chiave giusta per una lettura televisiva. Soltanto in una fase più matura, quella di Supergulp! per intenderci, ricorreremo anche a storie di avventura.
Mi ritrovai in mano cinque minuti di pellicola, girata in bianco e nero per risparmiare, con i quali avrei dovuto convincere i miei superiori che erano Sergio Silva e Angelo Romanò, persone di vasta cultura che probabilmente nella loro vita non avevano mai letto un fumetto. La difficoltà stava proprio nel convincerli a produrre una intera serie e a finanziarla. La storia di Nick Carter finiva con il detective che smascherava il suo “acerrimo nemico Stanislao Mulinsky, mago del travestimento”, un tormentone che si ripeterà in quasi tutte le storie. “Tu non sei la falsa contessa polacca – diceva Nick – bensì Stanislao Mulinsky in un suo riuscito travestimento”. “Ebbene sì, maledetto Carter hai vinto anche ‘stavolta” diceva Stanislao con la voce di Amedeo Nazzari e dalla eterea contessa polacca usciva fuori un omone peloso in canottiera, con tanto di tatuaggio. Prima della proiezione decisiva lo feci vedere a tante persone e in quel punto scattava sempre una sonora risata. I mie due capi rimasero impassibili per tutta la proiezione, insensibili alla gag di Nick Carter e dei suoi aiutanti Patsy e Ten ed io cominciai a temere che l’operazione “Fumetti in Tv” non avrebbe avuto un seguito. Ma, inaspettatamente, alla scena di Stanislao Mulinsky scattò la risata liberatoria (per me). Sembrava fatta, però c’era ancora un ostacolo da superare, la collocazione nel palinsesto di un programma così fuori da ogni schema. E non era un ostacolo da poco. Fui inviato alla Sacis, la società che gestiva la pubblicità televisiva, per convincerli a mettere i fumetti a traino, si direbbe oggi, della pubblicità meno vista di Carosello, per valorizzarla. Alla proiezione era presente tutto lo stato maggiore della Sacis, una decina di persone che mi scrutavano con aria severa e dai loro sguardi mostravano un certo fastidio che diventò palese mano a mano che la pellicola scorreva. Alla fine tutti si alzarono e se andarono senza neppure salutarmi. Rimase soltanto uno che mi guardò con aria paterna per alcuni secondi, poi, riconsegnandomi la scatola con la pellicola mi disse: “Benedetto figliolo, come può pensare di far passare tutta quella violenza…” e mi congedò guardandomi con compassione. Uscii sbalordito tanto che avrei pensato a uno scambio di pellicola se non avessi assistito alla proiezione. Ma dove l’avranno vista la violenza, pensai. Il mistero dei dieci dollari, così si chiamava, cominciava con una voce fuori campo che diceva: “Mentre su New York calavano le prime ombre della sera, in un angolo buio della quinta strada il tenente Callaghan faceva una strana scoperta…” e si vedeva uno trafitto da pallottole, frecce indiane e persino un’ascia un testa che il tenente Callaghan guardava con aria interrogativa e diceva: “Che si tratti di un suicidio?” Era questa la violenza! Mi venne la voglia di tornare indietro e di coprire di improperi tutto lo stato maggiore della Sacis ma mi trattenni. Comunque i soldi si trovarono e i fumetti in Tv andarono in onda di giovedì sul Secondo Canale, contro il Rischiatutto di Mike Bongiorno provocando proteste e lamentele nelle famiglie dove gli adulti volevano vedere Bongiorno e i giovani invece preferivano Nick Carter e soci.
Come titolo ricorremmo a Gulp!, con il punto esclamativo, l’onomatopea più famosa del fumetto internazionale, che sta a significare sorpresa e stupore. Guido fece comporre una bellissima sigla da Franco Godi, un grande musicista soprannominato “Mister gingle” per le sue fortunate musiche composte per la pubblicità.
Per non far apparire troppo innovativo il programma decidemmo di ricorrere alla presentazione di Cochi e Renato, una coppia di giovani comici in gran voga in quegli anni, anche se Guido e io avremmo preferito lasciare fuori da un programma di fumetti la figura umana. A questo arriveremo più tardi, quando avremo acquistato più coraggio e, soprattutto, più autonomia.
Ma per questo dovremo aspettare quattro anni, perché dopo (e nonostante) il grande successo, I fumetti in Tv furono accantonati per cinque anni. Ci fecero realizzare la prima puntata (un pilota, si diceva allora) di una nuova serie più lunga e più articolata e poi ci tolsero i finanziamenti per passarli ad un programma molto costoso come Mosè, uno sceneggiatone che aveva come protagonista Burt Lancaster. Molto bello, per carità, ma uno di quei programmi che in quel momento la Rai non poteva permettersi e che fece lo stesso sacrificando molti programmi minori che andavano a costituire l’ossatura del palinsesto. Ma, del resto, si era ancora in regime di monopolio e la Rai faceva quello che voleva. Ma la crisi stava per arrivare, i venti del Sessantotto avevano cominciato a soffiare anche sulla Rai. La televisione paternalistica e pedagogica di Bernabei, che aveva stimolato lo sviluppo del Paese, aveva fatto il suo tempo (tanto che Bernabei, fiutata l’aria, si era dimesso) e si chiedeva a gran voce una televisione più democratica che desse voce alle idee e alle istanze nuove. Si stava insomma delineando quella che fu chiamata la riforma e che prese corpo proprio nel 1976, sul modello francese, con due reti (alcuni anni dopo si aggiunse la terza) differenziate e in concorrenza (simulata, ovviamente, perché faceva parte della stessa azienda) fra loro. La prima rete era rimasta di stampo cattolico democristiano, la seconda ebbe un orientamento di sinistra. La concorrenza fece molto bene al Paese che fu aiutato nella sua crescita, ai telespettatori perché ebbero programmi nuovi e più vivaci, alla Rai stessa che così si preparò alla grande rivoluzione della nascita della televisione commerciale con cui dovrà fare i conti. E fece molto bene anche ai fumetti in Tv di cui si innamorò subito Massimo Fichera, il direttore della Seconda Rete. Per fortuna Guido De Maria, Bonvi ed io non avevamo mai smesso di tenere viva la fiamma dei fumetti in Tv, continuando a progettare e a mantenere i rapporti con il mondo degli autori e degli editori. E fu proprio un importante autore, Max Bunker (al secolo Luciano Secchi) che, oltre alla possibilità di acquisire i vari Supereroi (i Fantastici Quattro, L’Uomo Ragno, su tutti) e Alan Ford, il fortunato fumetto da lui inventato, ci suggerì anche il titolo: il programma era più consistente e aveva una durata superiore, per cui bisognava chiamarlo Supergulp! Ci mettemmo a produrre a rotta di collo, inserimmo molti personaggi nuovi e autori che non erano presenti nella prima serie, come Jacovitti e Hugo Pratt, con le sue storie di Corto Maltese, ma anche Tex, il decano dei fumetti italiani. Gli fu trovata una collocazione nuova, per lunghe serie quotidiane, ed era quella della fascia preserale, per intenderci quella che va in onda prima del Telegiornale. Finalmente ci liberammo della figura umana e promovemmo Nick Carter, Patsy e Ten, al ruolo di presentatori. Ora potevamo vantarci di fare un vero programma di fumetti. Il successo fu travolgente e possiamo dire che a distanza di oltre venti anni la memoria di Supergulp! è ancora viva e questa mostra sta qui a dimostrarlo.
I fumetti in Tv andarono in onda fino al 1980. Li facemmo morire Guido ed io, di comune accordo, quando ci accorgemmo che il video si stava inondando di pessimi cartoni animati giapponesi e coreani che stavano rovinando il gusto delle nuove generazioni. Applicammo alla televisione una legge della circolazione monetaria: in caso di circolazione di due monete, la moneta cattiva caccia sempre quelle buona. E noi, che sentivamo di essere la moneta buona, non potevamo subire l’onta di essere cacciati da Ufo Robot. Quindi facemmo come Greta Garbo, ci ritirammo dal mercato prima di subire le ingiurie del tempo.