@marco_spagnoli
Prodotta da Sky, l’ultima opera di Paolo Sorrentino è, per stessa ammissione del suo regista, nata in grande libertà. Ed è così che grazie alla Wildside di Lorenzo Mieli, Mario Gianani, Fausto Brizzi e Marco Martani, il cinema italiano conquista una nuova dimensione narrativa, offrendo il lavoro di uno dei principali autori del nostro paese alla platea mondiale attraverso una serie televisiva che è più un film in dieci ore, che un drama vero e proprio nel senso moderno del termine. Non che, in fondo, questo conti poi davvero qualcosa: i registi italiani non sono nuovi alle imprese di questo genere: Giuliano Montaldo con Marco Polo e Luca Ronconi con la trasposizione dell’Orlando Furioso, solo per citare alcuni esempi del glorioso passato, hanno impresso profondamente il loro talento in un racconto cinematografico a puntate, declinato lungo i palinsesti televisivi e riproposto, poi, diverse volte nel corso del tempo. Nell’era del binge watching, quindi, Young Pope rappresenta un’occasione importante per un cinema differente che con un respiro più ampio e un tempo narrativo diverso consente al regista napoletano di tornare ad affrontare quella che, evidentemente, è una delle sue ossessioni principali sul piano della narrazione: il potere e il controllo della vita delle persone.
In questo senso la storia di un giovane Papa tanto santo quanto imprevedibile, tanto fumatore quanto calcolatore è il veicolo perfetto per portare in ambito religioso quel tema tutt’altro che mondano della capacità di influenzare la vita altrui. Ad ogni costo… Qui non c’è più Jep Gambardella con il suo stile caprese di osservare le esistenze degli altri e nemmeno gli altri protagonisti dei film straordinari dell’originale filmografia di questo grande regista: c’è un Papa che deve vincere il gioco su una scacchiera interna per conquistare il potere e, forse, cambiare l’umanità. Ma è davvero questo il suo intento? Sorrentino gioca con lo spettatore intessendo una narrazione molto personale che non guarda alla cronaca recente del Vaticano, ma a quella più antica. I palazzi, le stanze, gli abiti talari nascondono le lacerazioni, le debolezze, le emozioni e la determinazione di uomini e donne convinti di operare secondo una legge più importante di quella di Dio, ovvero quella di una Chiesa conservatrice e terrena la cui sopravvivenza è nella capacità di adattamento che resta centrale nel suo dibattito interno.
Interpretato da un cast internazionale su cui svettano i nomi di Jude Law, Diane Keaton, Silvio Orlando, Ludivine Sagnier, Cecile De France, Young Pope rappresenta un’altra sfida della produzione italiana ai mercati internazionali, che incentrata sul nome del suo regista premio Oscar, porta la dimensione narrativa e produttiva italiana in direzione di qualcosa di molto più complesso e articolato, pur nella sua apparente semplicità di volere indagare in maniera autoriale e non cronachistica sui segreti del Vaticano e sull’ossessione del controllo delle vite altrui.
Da Andreotti a questo giovane papa fino al prossimo film su Silvio Berlusconi che, forse, dovrà attendere ancora qualche tempo per essere realizzato, evitando che, anche qui, la cronaca inquini la vena narrativa di Sorrentino, il regista dimostra che una delle cose in grado di interessarlo di più sul piano del racconto cinematografico è l’incontro delle persone e la loro difficoltà di interazione quando rappresentano scelte e poteri contrapposti e avversari.
Ed è molto interessante notare come questo progetto rappresenti una novità importante nel nostro panorama produttivo nazionale e finisca, una volta per tutte, per abbattere quel muro obsoleto e anacronistico che ha separato cinema e Fiction.
Anche da questo punto di vista la lungimiranza di Paolo Sorrentino è un modello importante che, oggi, ci fa parlare di audiovisivo e di produzioni per tutti gli schermi.