Perdo la pazienza, quando mio nipote mi risponde al telefono con l’ennesima frase della serie Gomorra. Deve ringraziare i tremila chilometri che separano Londra dal Salento perché la mia incazzatura non abbia ripercussioni ben più materiali del cazziatone che pur gli arriva. Non ha nemmeno tredici anni, viene da una onesta famiglia di origini popolari, a scuola se la cava bene, gioca a pallone con ottimi risultati. Un bambino normale che ha la fortuna di crescere in un ambiente sereno, ma a sentirlo parlare talvolta sembra tutt’altro.
Da qualche tempo a Napoli ragazzi appena un po’ più grandi di mio nipote si sparano addosso. Non battute ma pallottole. E non è l’orgoglio adolescenziale a uscirne ferito, ma i corpi in carne e ossa. Merda e sangue rappreso sull’asfalto. È colpa della serie Gomorra e di Roberto Saviano se succede? No, la camorra sparava quando Saviano era ancora un sogno d’amore dei suoi genitori. E da molto tempo prima, perché la camorra s’impadronisce di Napoli quando entra in città sul carrozzone dell’Italia unita Spa, anche se dirlo risulta essere per più di qualcuno un imperdonabile borbonismo. Qual è allora la questione?
Mi appare chiaro stamattina quando leggo il dialogo intervista fra Stefano Piedimonte e Roberto Saviano, pubblicato ieri sul sito del quotidiano napoletano il Mattino. Conosco entrambi di persona. Non dirò “amici”, ma li conosco a sufficienza per dolermi di non potergli esporre il mio punto di vista guardandoli dritto negli occhi. Cari Stefano e Roberto, siamo d’accordo: la colpa non è di chi racconta. Non si sputtana New York perché si fa una serie in cui si mostra una delle sue facce oscure, e lo stesso meccanismo vale per Napoli. No, quello che risulta ancora una volta stucchevole e inaccettabile è la pretesa che quella narrazione possa essere in qualche modo educativa, uno strumento per combattere quella camorra che descrive.
Ve la dico tutta? Quella serie, a differenza del film e del libro, è basata tutta sulla mitizzazione dei personaggi. Se nell’opera di Garrone si faceva fatica a individuarne uno solo che facesse scattare il meccanismo di identificazione, la serie invece è completamente giocata sul filo della coolness. Quale ragazzino che vive in uno dei quartieri idealmente rappresentati dalla fiction non vorrebbe essere gli stilosi, ricchi, violenti, vincenti, Savastano e Conte, se a questa fascinazione non si sottraggono nemmeno quelli che vivono in quartieri e famiglie normali? Se quella storia viene raccontata senza contrappesi?
Allora sono due le alternative, senza tirare inutilmente in ballo Medea o Breaking Bad: o siamo di fronte a una crime story che non ha velleità di redenzione, oppure questa serie è uno spot alla camorra. Non giriamoci intorno: se esiste un’altra Napoli che alla camorra si oppone ogni giorno e Saviano decide di non raccontarla più, siamo di fronte a una scelta narrativa. Se si decide di puntare l’obiettivo in maniera claustrofobica su un contesto autoreferenziale, senza inquadrare mai il pur minimo anelito di rivalsa, di rivolta, di ribellione, non si può giocare a scaricabarile con i detrattori accusandoli di volersi autoassolvere.
La camorra esiste? Certo che esiste, lo sa bene chi si trova ad averci a che fare ogni giorno per le strade di Napoli e della Campania. Come per le altre mafie che infestano questo paese, bisognerebbe discutere a lungo sulla sua natura, sulle collusioni strutturali con un sistema di potere che tira in ballo l’economia legale e le istituzioni. Ma quale strumento d’opposizione rappresenta questa serie, se sceglie deliberatamente di non far emergere altro che la sopraffazione e la violenza del cosiddetto sistema?
Anni fa – era da poco uscito il film Gomorra – in coda all’ufficio postale di Scampia, mi ritrovai a parlare con un ragazzo che era lì a pagare delle bollette. Mi raccontò una storia di redenzione che a me ricordò il miglior Edward Bunker. Dopo aver visto Gomorra, mi disse, ho capito che avrei fatto una brutta fine. Guadagnava 500 euro a settimana lavorando in una delle basi della 167, ma non esitò a mollare tutto per mettersi a vendere il pane in giro per la città. Lo incontrai per caso due mesi dopo a Fuorigrotta. In compagnia di sua madre, girava con una vecchia utilitaria: in quella carrozzeria arrugginita, in quei volti scavati dal disagio e dalla miseria, io scorsi occhi che urlavano rivolta. Verso la camorra e verso uno Stato complice quando non colluso.
Oggi invece, se mi trovo a parlare con i ragazzini neri dell’estate londinese dove sto vivendo e dico Napoli, mi rispondono: «Fuck me! Gomorrah!». In questo complesso di case popolari, in un quartiere di Londra sud dove giovanissimi con un altro colore della pelle si contendono con le medesime modalità lo stesso mercato di morte, da Napoli non arriva nessuna storia di redenzione. Nessun ragazzo che molla e va a vendere il pane. Solo una storia cool di gangster che hanno capito come gira il fumo e come va la vita. Ma soprattutto qual è il modo migliore per prendersela, quando nasci e cresci in un posto a opportunità zero come Brixton, come Scampia, come le Salicelle o il Parco Verde di Caivano.
Forse questi ragazzi avrebbero bisogno di altre storie. O almeno che nessuno reiterasse l’inganno di un crimine che paga. Come fa Gomorra, la serie.