di Alessia de Antoniis
Standing ovation per Milena Vukotic all’Off Off theatre di Roma. Diretta da Maurizio Nichetti, Milena Vukotic è Emilie du Chatelet. Insieme, hanno regalato agli spettatori, tornati in sala al cento percento, una piece frizzante, intelligente, divertente, riportando il teatro a teatro.
Era il 1993 quando Michetti e la Vukotic lavorarono insieme in Stefano quantestorie, film precursore di Sliding doors.
Oggi ripartono, dopo due anni di interruzione, da dove hanno iniziato: dal teatro.
“Ho iniziato al Piccolo di Milano. Facevo il mimo. Ho il teatro nel cuore. Ho scelto il cinema perché del teatro mi piace la fase di preparazione, le prove, lo studio del testo, ma non mi interessa andare in tournée”.
Inizia così la mia chiacchierata con uno dei personaggi più visionari del cinema italiano.
L’idea di questo testo è stata di Milena. Emilie du Chatelet è una donna molto conosciuta in Francia – continua Nichetti – emblema delle lotte femminili. Milena è bravissima in scena: da sola, racconta la vita vera di Emilie, facendola diventare spettacolo.
Dirige il Centro Sperimentale di Cinematografia di Milano. Grazie al tax credit tutti stanno facendo film…
Più che grazie al tax Credit, grazie telefonino. Oggi chiunque ha in tasca un telefonino di ultima generazione, si crede un regista. Il cinema si è evoluto, ma evoluto non significa che è andato avanti. Uno può evolversi anche andando indietro.
Film che escono sulle piattaforme, al cinema, magari solo per tre giorni. Lo spettatore non sa più cosa esce e dove vederlo. Che fine ha fatto la cinematografia italiana?
Le racconto un aneddoto. I miei film sono in DVD. Oggi nessuno ha più i lettori. Quando dico “ti do il DVD di Volere volare”, la gente mi risponde “non ho più lettore. Dove lo trovo?” Oggi i film non si comprano più, si trovano. Su Amazon o YouTube. Questa è la follia. Siccome i miei film non li ho venduti a nessuno, non si “trovano”.
Oggi un film è un prodotto assemblato che può essere stravolto in fase di montaggio. Potrebbe non uscire al cinema ma essere comprato da Amazon. La produzione “industriale” dei film ha inciso sulla mancanza di quei film che una volta rivedevi più volte?
Dobbiamo riflettere sulla figura del regista. Lei una volta vedeva “Ladri di biciclette” e sapeva chi lo aveva diretto. Ogni volta che lo rivedeva, trovava altri particolari. Oggi non le dicono neanche il nome del regista. Soprattutto nelle serie televisive, il regista è intercambiabile di puntata in puntata. Questa spersonalizzazione del prodotto, che una volta era caratterizzato dallo stile di un regista, è il motivo per cui i film difficilmente si rivedono. Oggi tutti lavorano allo stesso modo, secondo delle regole decise da altri. È tutto omogeneo.
È stato paragonato a Woody Allen. Nel cinema di Allen la parola è fondamentale. Lei lavora spesso come un mimo. Rataplan, Ho fatto Splash, sono una critica all’uso delle parola. Io non vedo questa somiglianza. Si sente simile a Woddy Allen?
L’ho sentito dire spesso. Sono d’accordo con lei. Io lavoro più sulle le immagini. Quando ho fatto Ladri di saponette, in Italia tutti mi dicevano “Woody Allen ha fatto La rosa purpurea del Cairo”. Non mi offendevo, ma non ero d’accordo. Quando sono andato a promuovere il film in America, iniziavo tutte le conferenze stampa quasi scusandomi. Ma tutti mi dicevano: guardi che Woody Allen è tutta un’altra cosa. Lei è molto più visionario, molto più italiano. Woody Allen è uno stand-up comedian che ha fatto cinema. E questo gli americani lo sanno benissimo. È un genio della sceneggiatura. Il primo Woody Allen ha creato dei capolavori. È un grande, ma io nel mio piccolo non mi sento né defraudato, né gratificato dell’essere affiancato a lui. Siamo diversi.
Il rapporto con il suo doppio? Com’è il doppio di Maurizio Nichetti?
Una volta una studentessa mi indicò i vari doppi nel mio cinema. Arrivata a Luna e l’altra mi disse: questa è la prima volta in cui l’alter ego è migliore della protagonista. Di solito Mr. Hyde, l’anima nascosta di una persona, è sempre peggiore. Una personalità repressa per la vergogna. Invece, nel caso di Luna e l’altra, l’ombra era la parte migliore. Credo che la fantasia, il subconscio, i sogni di una persona, possano essere anche leggeri, felici. Non è detto che quello che tengo nascosto sia la parte peggiore di me. Magari è una parte ancora più fantastica.
L’ingegner Colombo di Ratataplan era una critica al sistema, dove il laureato faceva il cameriere per vivere. Ora i giovani non si laureano più: con il “signor” Colombo, abbiamo risolto il problema alla fonte?
Mi sono laureato in architettura alla metà degli anni Settanta. Era la prima generazione che usciva dopo la rivoluzione dell’università, che non era più a numero chiuso e dove c’erano tanti laureati. Non c’era più il disoccupato perché non aveva studiato, ma c’era quello che aveva studiato. Oggi la situazione è peggiorata. Con l’aumento delle università e dell’offerta formativa, è difficile che tutti trovino il loro sbocco professionale. Oggi una laurea vale ancora meno che in passato. Nei miei corsi come docente universitario, cerco sempre di portare i ragazzi alla conclusione del ciclo di studi. Se uno non lo hai bocciato alle elementari o al liceo, tanto vale che finisca. Poi il problema lo avrà nel mondo del lavoro.
La televisione commerciale era la fine del monopolio Rai, la rete la fine dell’informazione controllata. Sembravano grandi conquiste democratiche. Oggi sprofondiamo tra televisione scadente e fake news. Cosa è accaduto?
Purtroppo, è vero. Tutte le tecnologie che negli anni ci sembrava che rompessero monopoli e dessero più libertà, si sono dimostrate solo peggiorative. Quando sono arrivati i cinema multisala, pensavamo che almeno una sarebbe stata destinata al cinema indipendente. Invece, quando usciva il blockbuster del momento, lo proiettavano in sette sale contemporaneamente. Quando è arrivato il digitale, abbiamo detto: per fortuna, almeno distribuiranno anche i film indipendenti. Invece trasmettono solo i blockbuster americani. È vero, abbiamo sperato che la tecnologia potesse democratizzare l’offerta, invece siamo sempre più presi in giro da una tecnologia che finge di farci scegliere, mentre ha già scelto per noi quello che dobbiamo guardare.
Orwell, Asimov e altri hanno ipotizzato società assurde. Le grandi utopie per le quali hanno lottato intere generazioni, alla fine, hanno perso davanti a quelle società distopiche per le quali non ha lottato nessuno?
Questa è la verità. Non a caso erano dei geni in anticipo sui tempi: avevano prefigurato il grande fratello. Che non è quello che noi abbiamo sempre temuto, è quello che è arrivato: la rete. È la fake news che non possiamo controllare. È una radicalizzazione delle posizioni che nasce dalla tecnologia. Perché se tutti hanno la libertà di cercare quello che vogliono, e io cerco solo quello che mi piace, mi convincerò sempre di più delle idee che ho e combatterò quelli che non la pensano come me. È l’uccisione del dialogo. È quello che stiamo vivendo.
Da Rataplan, dove lei è muto, a Honolulu Baby, dove si parlano tante lingue, dove ha anticipato tecniche che si sarebbero sviluppate dopo, come le webcam sul set o l’utilizzo dei social quando in Italia la rete era ancora per pochi, lei è sempre stato un precursore. Perché ha smesso?
Dopo Ratataplan, anche se sono sempre rimasto fedele ad un cinema visivo, ho cercato di fare film parlati. In Honolulu baby, mi piaceva l’idea che tutti parlassero una lingua diversa. Tutto questo azzerava la comprensione. Quindi, ancora una volta, si dava più importanza all’immagine che al dialogo, ma in modo opposto. Il film non andò benissimo. Avremmo dovuto mettere i sottotitoli. Col senno di poi posso dirlo. Avevo costruito il film pensando al grande Eduardo. Quando portava le sue commedie in giro per l’Italia, le italianizzava.
Faceva la battuta in napoletano e poi in un certo modo la traduceva. Avevo usato questa tecnica in Honolulu Baby, solo che non avevo fatto i conti con un pubblico più distratto. Il senso del film era far capire che la parola, proprio perché divide, è inutile, mentre l’immagine è quella che unisce, perché arriva a chiunque.
Ho smesso quando ho visto che c’era il rischio che i film non uscissero al cinema. Mi spaventava, ma non ho mai accettato di passare alla piattaforma come alternativa alla sala. Forse ho sbagliato. Chissà, magari un giorno farò un altro film, ma solo se mi divertirò a farlo.
È vero che Cristaldi non voleva come titolo Ratataplan?
È vero. Dopo avermi detto che il film era bellissimo, aggiunse: “però adesso dobbiamo cambiare il titolo. Un film con questo titolo non va a vederlo nessuno”. Non gli dissi no non lo faccio, ma non potevo cambiarlo. Avevo già fatto i titoli di testa, animati, e avrei dovuto buttar via tutto il lavoro. Tornai a casa e pensai a cinquanta titoli più brutti. In pratica obbligai Cristaldi a scegliere Ratataplan.